Samira è deceduta all’alba. Questa volta, la pressione proveniente dalla società civile a livello nazionale e internazionale non ha avuto successo nel salvare la “sposa bambina ribelle” dal patibolo. Una tragedia si è consumata con Samira Sabzian Fard, 30 anni, originaria di Khorramabad, capitale della provincia occidentale di Lorestan e trasferitasi a Malard, non lontano da Teheran.
Nel dicembre 2014, la donna ha compiuto l’omicidio dell’uomo a cui era stata forzata a sposarsi a 15 anni e che, per i successivi sei anni, l’aveva sottoposta a violenze, umiliazioni e torture. Il principio della “qesas” – la retribuzione in natura – su cui si basa la legislazione iraniana, non consente deroghe.
Alle prime luci del mattino del 20 dicembre, le guardie sono andate a prenderla nella cella di isolamento presso il carcere di Qezel Hessar a Keraj, dove era stata confinata dal giorno precedente. L’hanno quindi condotta al patibolo, dove è stata impiccata. Si tratta della diciottesima donna uccisa quest’anno, su un totale di quasi ottocento esecuzioni. Un numero record inserito nel contesto del rigido controllo attuato dal presidente Ebrahim Essebsi e dalla guida suprema, l’ayatollah Khamenei, a seguito delle proteste che hanno scosso il Paese nell’autunno 2022. Fra i dimostranti messi a morte, otto in totale. Il governo ha, comunque, intensificato le esecuzioni anche per i delitti comuni, un modo per serrare ulteriormente la morsa sulla popolazione.
Solo nel mese di novembre, si sono verificate 115 esecuzioni, con una media di tre al giorno, secondo i dati di Amnesty International e Human Rights Watch. Il caso di Samira aveva avuto un impatto significativo tanto da spingere le autorità a sospendere l’impiccagione il 13 dicembre. Il suo dramma sintetizza le discriminazioni che pesano sulle spalle delle donne. Da questo onere, che va oltre il velo obbligatorio, è nata la ribellione con il grido: “Donna, vita, libertà“.
Questo moto, dopo le plateali dimostrazioni dell’anno scorso, stroncate nel sangue, prosegue in silenzio. Che la curda Mahsa Amini sia morta dopo l’arresto per essere “malvelata“, mentre Samira sia stata impiccata per omicidio, poco importa se il suo gesto derivasse da terrore, disperazione o legittima difesa. In fondo, entrambe hanno infranto le regole di un gioco che avrebbero dovuto semplicemente accettare e subire. Mahsa e Samira, le ribelli inconsapevoli. Nessuna delle due ha avuto pietà.
Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty International, ha affermato: “Samira Sabzian è la tragica testimonianza di un sistema che si basa sull’oppressione delle donne fin dalla loro infanzia“. Amnesty International denuncia il sistema che costringe le donne al matrimonio prima della maggiore età, con Samira come tragica testimonianza. Le “baby-mogli” affrontano violenze sistematiche.
Samira, terrorizzata ed esasperata, ha ucciso il marito con l’aiuto della sorella. Tuttavia, per i giudici, gli abusi domestici non costituiscono un’attenuante. Solo i parenti del marito defunto avrebbero potuto salvarla dal patibolo tramite una richiesta di perdono. Tuttavia, hanno deciso di non farlo, chiedendo invece una “punizione esemplare“. Così è avvenuto. Prima di essere impiccata, Samira è stata detenuta per otto anni tra la prigione di massima sicurezza di Evin e Qezel Hessar, senza poter vedere i suoi figli, ora di 10 e 14 anni. Solo la settimana scorsa, in vista dell’esecuzione, le è stato permesso di dir loro addio.
Fonte Foto in Evidenza: informazione.it
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