Pellicola d’apertura alla settantesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, distribuito in Italia dal 3 ottobre in 400 copie, ha incassato 2.080.000 euro nei primi quattro giorni di programmazione, con un’ottima media di copie a 5.000 euro per schermo: è Gravity, il film rivelazione dell’anno del regista, sceneggiatore e produttore visionario del Messico, Alfonso Cuarón. Campione degli incassi al box office italiano, oltre che a quello americano, il quasi e inaspettato assolo di Sandra Bullock nello spazio (nei panni della dottoressa Ryan Stone), scavalcante la figura del coprotagonista George Clooney (Matt Kowalsky) va ad intrecciarsi con una trama piena d’azione, suspense e colpi di scena girati, quasi interamente, nell’ammirato e remoto sistema solare nell’orbita terrestre, nell’estremo e disperato tentavo di raggiungere in tempo la Stazione Spaziale cinese vicina e far ritorno interi sulla Terra.
Il dato che però più di altri potrebbe sorprendere è che il 92% degli oltre 200.000 spettatori ha visto il film in 3D. Scelta più che saggia perché, non osservato in tre dimensioni e in una sala capace di esaltare le sue potenzialità visive, Gravity perde gran parte del suo appeal riducendosi a non molto di più di una classica storia di lotta per la sopravvivenza umana nell’infinità degli abissi spaziali. Esaltato dalla critica, sul sito di Rotten Tomatoes, il film ha agguantato il 97% dei consensi, quasi l’unanimità di “lodi” per lungometraggi. «Un’esperienza fisica travolgente, una sfida per i sensi che coinvolge ogni tipo di terrore» si legge nello storico magazine New Yorker. Eppure, non a caso la precauzione che suggerisce Ann Hornaday sul Washington Post è che «Gravity deve essere visto al cinema per essere apprezzato, la prospettiva di vedere questo film in qualcosa di meno di uno schermo di 40 piedi (12 metri circa, ndr) equivale ad ascoltare Beethoven attraverso un barattolo di latta e una stringa.» Se la meraviglia visiva non seduce l’attenzione, infatti, la presa emotiva è tutt’altro che scontata.
Molti definiscono Gravity un “film di fantascienza”, ma negli effetti quello che accade ai due protagonisti è già possibile nella contemporaneità secolare testimoniata dalla tecnologia, presentata durante le riprese, ed eguale a quella attualmente utilizzata dalle maggiori agenzie spaziali e aeronautiche internazionali. Uno stravagante astrofisico, inoltre, ha commentato proprio sul fronte della plausibilità scientifica della narrazione: si tratta del divulgatore scientifico e responsabile del planetario di New York, Neil deGrasse Tyson, il quale sul social Twitter ha esternato diversi dubbi sul film. Innanzitutto, Tyson suggerisce che Gravity venga ribattezzato Zero Gravity, vista l’assenza di forza gravitazionale; in seguito inizia a passare al setaccio i “misteri di #Gravity”, chiedendo: «Perché i capelli di Bullock, in scene altrimenti convincenti di mancanza di gravità, non fluttuano liberamente sul suo capo? L’astronauta Clooney informa il medico Bullock cosa succede dal punto di vista scientifico durante la privazione di ossigeno? Perché Bullock, un dottore, è in servizio alla Hubble Space Telescope? O ancora: Come mai lo stesso Hubble (593 km sopra il livello del mare), l’ISS (350 km sopra la Terra) e una Stazione Spaziale Cinese sono tutti su una stessa linea visiva?».
Una sfilza di critiche costruttive e tecniche come queste, vengono, tuttavia, accompagnate da un ultima considerazione personale dello stesso astrofisico, al quale, infine, il film è davvero piaciuto. Ancora una volta, pare, quindi, che anche la scienza alzi perplessa e compiaciuta al tempo stesso le spalle di fronte al potere catturante e ipnotico del cinema.
Andrea Battaglia
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Articoli di proprietà di Voci di Città, rilasciati sotto licenza Creative Commons.
Sei libero di ridistribuirli e riprodurli, citando la fonte.
Ti piacerebbe entrare nella redazione di Voci di Città? Hai sempre coltivato il desiderio di scrivere articoli e cimentarti nel mondo dell’informazione? Allora stai leggendo il giornale giusto. Invia un articolo di prova, a tema libero, all’indirizzo e-mail entrainvdc@vocidicitta.it. L’elaborato verrà letto, corretto ed eventualmente pubblicato. In seguito, ti spiegheremo come iscriverti alla nostra associazione culturale per diventare un membro della redazione.