Il film Grace di Monaco (Grace of Monaco) di Olivier Dahan è stato accolto con grande freddezza alla proiezione stampa. Preceduto dalle molte polemiche sollevate dalla famiglia Grimaldi sulla veridicità dei contenuti, il lungometraggio interpretato dal Premio Oscar Nicole Kidman nel ruolo della principessa, ha aperto la 67ª edizione del Festival di Cannes che avrà luogo nell’omonima città francese dal 14 maggio al 25 maggio 2014.
È il 1956, Grace Kelly lascia gli Stati Uniti e lo studio dove ha finito di girare High Society per entrare davvero nell’alta società e in un altro mondo, sposando il principe Ranieri (nel film interpretato da Tim Roth) e ritirandosi a Monaco. Sei anni dopo la favola deve fare i conti con la realtà di un matrimonio messo in crisi dagli impegni del principe che allontanano sempre più i due coniugi, oltre che con la crisi del Principato stesso, minacciato di annessione dalla Francia di De Gaulle in cerca di soldi rapidi per far fronte alle spese in Algeria. In questo delicato frangente, arriva, intrigante e sorniona come chi la porge, la proposta di Hitchcock di riportare Grace a Hollywood e farne la protagonista di Marnie. Nella terra che è simbolo di libertà, la principessa venuta da Filadelfia è costretta suo malgrado a scegliere tra il richiamo dell’arte e della passione da una parte e quello della famiglia e della politica dall’altra. Nonostante il progetto sembrava essere promettente, non ha avuto le aspettative prefigurate. I figli di Grace si erano già schierati contro il film di Dahan nel gennaio del 2013 ritenendolo “inutile e glamour”.
In realtà, da cima a fondo Olivier Dahan non si cura di mostrare quanto piuttosto di dimostrare. Dimostrare le capacità mimetiche di Nicole Kidman, dimostrare di conoscere la storia e dimostrare di saperla romanzare. Ma l’ansia della dimostrazione conduce dritta alla didascalia. Una volta visto il film, non stupisce che i figli di Grace e Ranieri III non abbiano apprezzato il modo in cui Dahan ha raccontato la figura del padre: un uomo autoritario, indifferente alla moglie, antipatico in ogni suo gesto. Nicole Kidman, che in conferenza stampa racconta di aver preparato al dettaglio il suo personaggio studiando per cinque mesi, continua a difendere la pellicola affermando di essere un’opera “rispettosa”.
Nel film si innestano più strati: oltre alla politica, il matrimonio, la carriera, i laceranti dubbi interiori. L’attenzione viene spostata con troppa disinvoltura da una sfera all’altra, costringendo lo spettatore a non cogliere appieno la portata e le implicazioni di ciascuna di esse. Limite forte per una storia che così diventa solo un pretesto per mostrare il coraggio di una donna in un contesto così atipico, nonché antico. Mentre assistiamo a personaggi che vanno e vengono, lezioni di francese, luoghi comuni e lievi forzature quasi parodistiche di certi profili e di certi ambienti, si perde di vista la crescita completa di Grace che avviene sotto i nostri occhi eppure non ce ne accorgiamo nemmeno. Forse per via della succitata retorica certo, ma anche perché questo biopic (film biografico) è cosi pulito che il bel viso della sua protagonista in primissimo piano finisce col farsi emblema di un cinema purtroppo stantio, piaccia o meno, lo sono certe strutture e certi modi di raccontare.
Tim Roth interpreta un Ranieri quadrato, monolitico, “monoespressivo” e di poche parole. Letteralmente un uomo nell’ombra. Se Grace di Monaco non raggiunge la temperatura è anche perché, a differenza della sua protagonista, non sa scegliere: non opta per il tratto marcato del mélo, ma nemmeno per quello leggero e romantico che aveva scolpito le vacanze romane della principessa Anna, scegliendo invece la strada della parabola dei grandi poteri che implicano grandi responsabilità senza supereroi a giustificare gli eccessi. Ci sono tante piccole cose di pessimo gusto (basterebbero in questo senso le inquadrature finali). È quasi perversamente impressionante come Dahan oramai non trovi il target e sperperi quasi ogni occasione. Eppure nel tentativo di destrutturare e portare a dimensione umana Grace Kelly, Olivier Dahan tende a semplificarne e nello stesso tempo enfatizzarne troppo le peculiarità esteriori, per un risultato che tradisce in parte l’alta aspettativa di realismo solitamente connaturata a prodotti di questo genere. A questo si affianca l’interpretazione della Kidman che della Kelly sembra restituire solo un vago ricordo, incapace fino in fondo di abbracciare la complessità, la lotta interiore e uno stato di estrema fragilità.
Enrico Riccardo Montone
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