ROMA – Il primo bando indetto dal ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (MiBACT) con cui si affidava la gestione di parte del vasto patrimonio artistico e culturale del Bel Paese in mano a soggetti privati si è rivelato un mezzo flop. La grande bellezza che nessuno riesce a farsi carico in modo tale da valorizzarla e preservarla dalle ruggini del tempo, in primo luogo a causa di una congiuntura economica sfavorevole che in tal senso non permette di compiere salti nel buio senza avere la certezza di un ritorno dal punto di vista economico, rappresentato esclusivamente dagli incassi, e per la quale lo Stato dispone di risorse limitate.
Già nel lontano 2004 ci aveva provato il secondo governo Berlusconi, inserendo all’interno della manovra finanziaria per l’anno 2005 un provvedimento che acconsentiva a dare «in gestione a soggetti privati in cambio di un canone i beni culturali immobili dello Stato, delle Regioni e degli enti locali che non rendono nulla». Questa legge, promossa dall’allora ministro dei Beni e delle Attività Culturali Giuliano Urbani, è rimasta inapplicata fino a quando Dario Franceschini ha deciso di tirarla fuori dal cassetto dov’era confinata da anni, pur riservando la partecipazione al bando soltanto per associazioni e fondazioni senza scopo di lucro.
Per questo bando ministeriale si sono fatti avanti soltanto in sette, tra associazioni e fondazioni no profit di estrazione sia laica che religiosa: Fondo Ambiente Italiano, la cooperativa Eta Beta, Italia Nostra, i Cavalieri dell’Ordine di Malta, l’Accademia Nazionale delle Arti Castello di Petronio di Todi, la Pro Loco di Volargne (VR) e la Dignitatis Humanae Institute, una fondazione cattolica che si occupa di dare impulso alla dottrina sociale ecclesiastica.
Gabriele Mirabella
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