James Harden è ormai da anni un perno imprescindibile degli Houston Rockets, con cui ha raggiunto la finale di Western Conference lo scorso anno (sconfitta per 4-1 contro i Golden State Warriors) ed ha recitato un ruolo di primo piano sin dal suo arrivo in Texas. I suoi primi passi nell’affascinante mondo della NBA, però, gli Oklahoma City Thunder, che nel 2009 lo selezionarono come terza scelta assoluta al Draft. Il suo arrivo – unito a quelli precedenti di Kevin Durant (seconda scelta assoluta nel 2007, quando la sede della franchigia era ancora Seattle) e Russell Westbrook (quarta scelta assoluta al Draft 2008) – fece ardere la fiamma della speranza dei supporter di OKC, che auspicavano un grande futuro per la loro squadra.
La presenza dei tre giovani quanto talentuosi cestisti sembrava essere una garanzia sufficiente per far sì che i Thunder potessero inaugurare un nuovo ciclo vincente, dopo che i Seattle SuperSonics erano riusciti a vincere un solo titolo di NBA (1979) in quarantuno anni di storia. Nel 2011 arriva la sconfitta per 4-1 nelle finali di Western Conference contro i Dallas Mavericks del tedesco Dirk Nowitzki, dopo aver avuto la meglio su Denver Nuggets (4-1) e Memphis Grizzlies (4-3), mentre l’anno successivo OKC arriva alle finali di NBA al termine di una lunga cavalcata in cui elimina proprio i
Dallas Mavericks campioni in carica (4-0), poi i Los Angeles Lakers (4-1), quindi i San Antonio Spurs (4-2), arrendendosi soltanto all’ultimo atto al cospetto dei temibili Miami Heat di LeBron James, Dwyane Wade e Chris Bosh, una squadra rivelatasi troppo forte anche per gli ambiziosi e giovani Thunder, sconfitti per 4-1 nella serie.
Si tratta dell’ultima annata di James Harden in quel di Oklahoma, con il Barba che fa le valigie e accetta la corte degli Houston Rockets, che offrono al giocatore un contratto di cinque anni del valore di 80 milioni di dollari, mentre il general manager Sam Presti provò disperatamente a convincerlo a restare con un quadriennale da 54 milioni di dollari. Harden non batté ciglio e salutò dopo tre anni la squadra che aveva avuto fiducia in lui quando era ancora una promessa e in cui ha formato un trio spaventoso con Durant e Westbrook, dichiarando in seguito di essere dispiaciuto di aver lasciato Oklahoma e che sarebbe stato pronto a restare anche come sesto uomo per portare la franchigia al successo.
Le due parti hanno preso dunque strade diverse e la scorsa estate un episodio simile ha visto protagonista Kevin Durant, finito tra i free agent alla scadenza del contratto e accordatosi in seguito con i Golden State Warriors campioni del 2015 in NBA: la differenza è che nel caso di KD i tifosi dei Thunder hanno reagito in maniera piuttosto dura, bruciando le magliette col suo nome, essendosi sentiti traditi dalla partenza di un elemento chiave, mentre nel caso di Harden, si trattava di un giocatore ancora giovane al momento della sua cessione. Alla luce di tutto ciò, cosa sarebbe successo se The Beard fosse rimasto alla Chesapeake Energy Arena?
Sicuramente Harden avrebbe proseguito il suo percorso di crescita tra le file dei Thunder e presumibilmente sarebbe diventato un punto fisso del quintetto titolare della franchigia, facendo parte dei Big Three insieme a Durant e Westbrook. Questi ultimi due non sono bastati a OKC per imporsi nelle finali di Western Conference del 2014 contro i San Antonio Spurs di Gregg Popovich (4-1 in favore degli speroni). Magari con il magico trio di scelte al Draft i Thunder avrebbero dato maggior filo da torcere ai texani e si sarebbero potuti imporre come una delle squadre più talentuose e interessanti dell’intero panorama cestistico statunitense. Ha quasi dell’incredibile il fatto che Harden – insieme a Durant e Westbrook – non sia riuscito a vincere mai il tanto agognato anello, sfiorandolo a più riprese nel corso dei tre anni trascorsi in quel di Oklahoma.
La domanda che sorge quasi spontanea è la seguente: al fianco di Brodie e KD, The Beard avrebbe raggiunto i livelli su cui si esprime al giorno d’oggi? Se è vero che la risposta non è così scontata come potrebbe sembrare, è pur vero che non è facile emergere a tal punto da diventare il faro della squadra se al tuo fianco hai altre due superstar assolute del mondo della NBA. Far convivere in uno stesso sistema tre stelle del calibro di Harden, Durant e Westbrook è un’operazione piuttosto complessa e di fatto, paradossalmente, non sarebbe stata una garanzia di successi per i Thunder. Probabilmente l’ex ASU Sun Devils avrebbe raggiunto progressi notevoli dal punto di vista difensivo, dato che ai tempi di OKC si dedicava con risultati molto positivi alla fase di copertura e nella stagione 2011-2012 ebbe un impatto dalla panchina tale da permettergli di conquistare il premio di Sixth Man of the Year, ossia il riconoscimento quale “Sesto uomo dell’anno”, assegnato annualmente a partire dall’annata cestistica 1982-1983 alla riserva che si rivela più efficace e utile per la sua franchigia.
Al contempo, però, la sua propensione offensiva avrebbe prodotto risultati per forza di cose inferiori agli impressionati numeri fatti registrare nel quinquennio successivo tra le file degli Houston Rockets: con la squadra attualmente guidata da Mike D’Antoni, infatti, Harden ha compiuto il definitivo salto di qualità, diventando un vero e proprio leader dei suoi, in grado di decidere spesso e volentieri le partite da solo e di assicurare una presenza costante in termini di punti e assist, tanto da imporsi come uno dei migliori attaccanti dell’intera lega. Arrivato ad appena 22 anni in quel di Houston, Harden è stato abile nel lavorare duramente su sé stesso e migliorare in maniera considerevole i propri punti di forza, correggendo altresì i (pochi) difetti e trasformandosi in un giocatore in grado di fare reparto da solo, un vero e proprio uomo franchigia per intenderci.
I Rockets, dal canto loro, hanno riposto grandissima fiducia nelle potenzialità del Barba, costruendo attorno a lui una squadra capace di ottenere risultati sempre più confortanti anno dopo anno, tra cui le finali di Western Conference perse per 4-1 due anni fa contro i Golden State Warriors. In attesa di conquistare per la prima volta
l’ambito anello con la franchigia di Houston e il titolo di MVP (il prossimo 26 giugno si saprà il nome del vincitore), a cui punta anche il suo ex compagno di squadra Russell Westbrook (eliminato dai razzi al primo turno dei playoff), dunque, i cinque anni fin qui trascorsi da Harden in Texas dimostrano che la scelta di trasferirsi tra le file dei
biancorossi non è stata affatto una mossa sbagliata per lui, per quanto la tentazione di restare ad Oklahoma insieme a Durant e Westbrook fosse forte.
In una realtà tanto affascinante quanto complicata qual è quella della NBA, non è possibile vivere di sé e di ma, in quanto il ritmo della lega è talmente elevato che per andare avanti non si ha nemmeno il tempo di fermarsi a pensare al passato e a come sarebbero potute andare le cose cambiando il corso degli eventi. Il più completo ed esperto (sia per ciò che concerne le doti tecniche che sotto il profilo mentale) James Harden che in tanti – oltre ai tifosi dei Rockets – hanno imparato ad ammirare e stimare nel corso degli anni houstoniani non è certamente lo stesso diamante grezzo che a soli vent’anni quasi non credeva ai suoi occhi quando fu scelto al Draft 2009 dagli Oklahoma City Thunder e cercava di ritagliarsi un ruolo di primo piano in una squadra giovane ma ambiziosa.
Molto probabilmente, dunque, se Harden fosse rimasto ad Oklahoma, oggi parleremmo di lui come di un giocatore forte che compone un devastante trio con Durant e Westbrook e non di un fuoriclasse che è il vero motore della navicella spaziale degli Houston Rockets. Discorso simile vale per i suoi due ex compagni di squadra, con KD che è diventato in poco tempo un imprescindibile punto di riferimento dei travolgenti Golden State Warriors di Steve Kerr e Brodie che è rimasto alla Chesapeake Energy Arena per recitare il ruolo di trascinatore assoluto di una squadra il cui meccanismo ruota attorno al talento del playmaker classe ’88. Ecco perché, forse inevitabilmente, le strade dei tre si sono divise, anche se i componenti del Big Three erano molto amici e sarebbero rimasti volentieri a giocare insieme ad Oklahoma: non aver impedito che Harden lasciasse la franchigia è stato sicuramente un rimpianto per
i Thunder, ma al tempo stesso ha permesso alla squadra di trattenere Serge Ibaka e di mettere in piedi un roster niente male e a The Beard di scrollarsi di dosso l’etichetta di «talento promettente» in favore di quella di «fuoriclasse geniale».
E – siccome si diventa un campione grazie a ogni singola esperienza vissuta in carriera – in merito alla sua straordinaria evoluzione dal punto di vista tecnico e caratteriale deve molto anche e soprattutto al triennio trascorso alla corte di Scott Brooks, che gli ha permesso di misurarsi con risultati più che positivi in NBA e di sentirsi parte integrante di un progetto ambizioso. Detto questo, però, siamo certi che molti romantici appassionati della NBA nonché numerosi tifosi dei Thunder avranno pensato almeno una volta a come sarebbero andate le cose se il ciclo dei Big Three ad Oklahoma fosse proseguito. Per ciò che concerne Harden – come già detto – avremmo potuto ammirare un giocatore più abile in fase difensiva e meno travolgente
in quella offensiva, ma comunque una guardia in grado di imporsi come una delle migliori della lega e di rivestire un ruolo di primo piano nel roster di OKC.
E, soprattutto, cosa ne sarebbe stato degli Houston Rockets? Harden è il giocatore ideale per i razzi perché è ormai un’icona della franchigia texana sia sul parquet che fuori dal campo e senza un tassello del suo calibro l’attuale mosaico houstoniano non sarebbe così spettacolare e suggestivo. E non è certo un caso che i biancorossi siano riusciti a tornare ai playoff dopo tre anni consecutivi senza prendervi parte proprio in concomitanza con la prima stagione di The Beard a Houston. Cinque qualificazioni consecutive alla post-season (miglior traguardo centrato dai due titoli vinti nel 1993-1994 e 1994-1995) e rilancio di una squadra che negli anni precedenti all’arrivo di Harden era tutt’altro che una tra le franchigie migliori della lega. Insomma, il Barba e una sua a tratti banale decisione hanno influito notevolmente sugli equilibri di ben due squadre (Thunder e Rockets) e, più in generale, delle ultime cinque annate dell’intera NBA. E pensare che nell’estate 2012 pareva trattarsi soltanto di una cessione – per quanto dolorosa – tutto sommato comprensibile.
Dennis Izzo
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Coordinatore editoriale di Voci di Città, nasce a Napoli nel 1998. Nel 2016 consegue il diploma scientifico e in seguito si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza presso l’Università Federico II di Napoli. Tra le sue tanti passioni figurano la lettura, i viaggi, la politica e la scrittura, ma soprattutto lo sport: prima il calcio, di cui si innamorò definitivamente in occasione della vittoria dell’Italia ai Mondiali 2006 in Germania, poi il basket NBA, che lo tiene puntualmente sveglio quasi tutte le notti da ottobre a giugno. Grazie a VdC ha la possibilità di far coesistere tutte queste passioni in un’unica attività.
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