“Generazione di fenomeni“: la famosa canzone degli Stadio uscita nel 1991, ma anche il termine che il giornalista italiano Jacopo Volpi utilizzò per descrivere i pallavolisti della nostra nazionale, che negli anni novanta vinsero tre mondiali consecutivi.
Oggi, rimanendo in ambito sportivo, ma cambiando disciplina, possiamo definire generazione di fenomeni i calciatori appartenenti alla generazione Z, ovvero coloro che sono nati tra il 1997 e il 2010. Alcuni esempi? Haaland, Foden, Vinicius Jr e il più vecchietto fra questi, Kylian Mbappé (1998).
“Oggi i ragazzi amano troppo i propri comodi, mancano di educazione, disprezzano l’autorità, contraddicono i genitori e si comportano da maleducati”. Così scriveva Platone in una sua opera a cavallo fra il Quattrocento e il Trecento a.C..
Di secoli ne son passati, ma le cose non è che siano cambiate. I giovani, di ogni generazione, sono sempre additati per un qualsivoglia motivo. Ne sa qualcosa, in quanto spesso presa di mira, la famosa “Generazione Z” (1997-2010). Quest’ultima è la generazione degli adolescenti che vanno per la maggiore età; dei liceali che diventano universitari; dei laureati che si apprestano a diventare adulti. Allo stesso tempo è la causa di tutti i problemi che affliggono la società. O almeno così vogliono farci capire. La colpa? Il troppo utilizzo di internet e dei social network.
A rivendicare i loro coetanei (o quasi) e far diventare centrali i giovani, almeno nel mondo del calcio, ci hanno pensato i fenomeni di questa generazione. Haaland, Foden, Vinicius Jr: tutti ragazzi diventati indispensabili per le proprie squadre.
Ieri sera, nell’andata dei primi due quarti di finale di Champions League, ancora una volta si sono presi la scena. Il Real Madrid ha battuto per 3-1 il Liverpool, grazie a una doppietta di Vinicius Jr, e il Man City ha vinto 2-1 contro il Dortmund di Haaland grazie alla rete nel finale di Phil Foden. Ad accomunarli non solo il talento o l’anno di nascita (tutti e tre del 2000), ma le doti atletiche e il precoce cammino nelle giovanili. Ecco come sono diventate le stelle di oggi.
La storia di Vinicius Jr parte dal basso, da una famiglia di umili condizioni. Ma come ogni bambino brasiliano che si rispetti, lui solo a una cosa pensa: il “futebol”. Cresce nelle giovanili del Flamengo, brucia ogni tappa e viene fatto giocare con ragazzini di una o più categorie superiori. Nel 2017 vince con il Brasile la “Copa America” U-17, venendo eletto miglior calciatore e marcatore del torneo. Qualche mese più tardi, il Real Madrid investe ben 45 milioni per averlo in squadra. Non male per un, allora, diciassettenne.
Come tutti i giocatori talentuosi brasiliani, anche Vinicius tende a scherzare un po’ troppo con gli avversari, i quali la maggior parte delle volte non reagiscono benissimo (chiedere ieri ad Alexander-Arnold). Ma il Real è una società intelligente e Florentino Perez ancor di più. Lo mandano a giocare nella squadra B, nella Castilla, per fargli fare le ossa sperando che qualcuno non gliele rompa.
Gioca qualche partita con la maglia del Real Madrid B, ma spacca letteralmente in due la terza divisione del campionato spagnolo. È un giocatore di un’altra categoria. In un derby contro l’Atletico Madrid (anche tra le giovanili sentitissimo) mette a segno una doppietta. Va a un’altra velocità. Un difensore dei colchoneros aveva però trovato un modo per fermarlo: prima compiendo un intervento durissimo, poi mordendogli la testa.
Dopo la scena “thriller” del morso in testa, i Blancos decidono di levarlo dalla squadra B. Troppo superiore. Non sanno però che fare. In particolare, non sanno se darlo in prestito a qualche squadra di Liga che lotta per la salvezza o se portarlo in prima squadra. Decise l’allora mister della prima squadra Lopetegui: “Resta con noi, lo porto in prima squadra”.
Dopo qualche settimana di adattamento, Vinicius Jr, riesce a inserirsi nell’ambiente Real anche se in partita non esprime al massimo il suo potenziale talento. Fino a ieri, però, quando con la sua doppietta al Liverpool è diventato il secondo più giovane marcatore (20anni e 268 giorni) del Real Madrid nella fase a eliminazione diretta della Champions. Meglio di lui solo un certo Raùl, che trovò la rete contro la Juventus a soli 18anni e 253 giorni.
Erling Braut Haaland nasce nel luglio del 2000 in Inghilterra, più precisamente a Leeds, perché il padre, Alf-Inge Haaland, era anch’egli un calciatore. In particolare, dal 2000 al 2003 ha vestito la maglia del Man City e proprio un derby contro il Man Utd ha segnato la sua carriera e l’infanzia del piccolo Erling.
Roy Keane, storico calciatore irlandese dei Red Devils, con un intervento folle ruppe la gamba del povero giocatore norvegese, mettendo fine alla sua carriera e facendo cambiare anche i progetti di vita della famiglia. Nel 2004, infatti, gli Haaland si trasferiscono in Norvegia, nella loro piccola città di provenienza: Bryne.
Quest’ultima però è la città giusta dove far crescere l’ultimogenito di casa: Erling. Bryne è, infatti, famosa in Norvegia non di certo per i suoi dodicimila abitanti, ma perché viene considerata la città del calcio. È, infatti, nelle giovanili della squadra della città che il piccolo Erling cresce e gioca (ovviamente con i ragazzi più grandi di almeno un anno).
Nel 2017 viene acquistato dal Molde (una delle principali squadre del campionato norvegese), dove ad allenarlo vi è un altro grande attaccante: Ole Gunnar Solskjaer, l’attuale manager del Man Utd. È qui che si accorgono che Erling ha problemi nella crescita. Soffriva del cosiddetto scatto di crescita adolescenziale. Ad aiutarlo a superare questo problema ci ha pensato una donna: la cuoca della mensa del Molde. Quest’ultima si è occupata della nutrizione del giovane Haaland, il quale tornava sempre a casa con una teglia contenente delle polpette norvegesi che al calciatore piacevano molto.
In due anni cresce che è un piacere, forse pure troppo (tanto che ha dovuto fare tanti esercizi di palestra per mettere a posto il fisico), ma poco importa. Inizia a segnare rete dopo rete, senza fermarsi mai. Il suo sogno di diventare calciatore prende vita. Nella seconda stagione col Molde segna quattro gol in 21 minuti. Arrivano varie offerte dai club europei importanti, ma insieme alla famiglia decide di accettare quella del Salisburgo, apparsa la squadra più adatta per la sua crescita. E cosi è.
Alla prima stagione con la squadra austriaca segna a ripetizione. In estate arriva la convocazione della Norvegia per il mondiale U-20, dove stabilisce un nuovo record. Battendo 12-0 l’Honduras, la nazionale norvegese ha messo a referto la vittoria con più scarto di questa competizione. Haaland? Semplicemente ha messo a segno nove delle dodici reti complessive della sua squadra.
La stagione successiva mette a segno una tripletta al suo esordio in Champions League contro il Genk, divenendo il terzo giocatore più giovane della competizione a farlo. I grandi club cominciano a darsi battaglia per prenderlo, sembra vicinissimo alla Juventus, ma lui alla fine sceglie il Borussia Dortmund.
In appena una stagione e mezzo con la maglia giallo/nera del Dortmund, ha segnato ben 34 reti in 36 presenze. Una media di quasi un gol a partita. Ieri sera, contro il City non ha segnato, ma a servito a Reus l’assist del momentaneo pareggio.
La carriera di Foden parte da Stockport, un distretto metropolitano di Manchester, dove egli nasce e vive con la famiglia, in un sobborgo medio-basso della città. La famiglia di Phil è tifosissima del Man City e fin da piccolo, ogni fine settimana, va all’Etihad Stadium con la mamma e il papà.
L’ammirazione per il club fa sì che Phil si avvicini al mondo del calcio, entrando all’età di 8anni nell’Accademy della squadra. Giocare per quel club è un sogno per il giovanissimo Foden, ma soprattutto per la famiglia, inizialmente increduli.
Anno dopo anno migliora le sue capacità, stupendo anche gli allenatori dei vari settori giovanili, che lo promuovono nelle categorie più grandi. Nel frattempo continua anche gli studi, perché la famiglia non vuole che la carriera calcistica faccia trascurare la sua educazione. Il Man City gli offre così una borsa di studio in un college della città.
Nel 2017 vince con l’Inghilterra la Coppa del Mondo U-17. Viene premiato con il pallone d’oro della competizione e a fine anno gli viene anche consegnato il premio “2017 BBC Young Sports Personality of the year”.
Arrivato nella primavera del Man City, viene notato da Pep Guardiola, che rimane incantato dal suo talento, tanto da portarlo in prima squadra. Nel 2019, in una conferenza stampa, Pep aveva così parlato del ragazzo: “Foden è il più grande talento che abbia mai visto. Ha tutte le qualità per raggiungere le vette mondiali. L’unico problema è che il suo allenatore non lo mette titolare, ma magari in futuro potrà farlo”.
Quel futuro di cui parlava Guardiola è ora, è il 2021, quando Foden ha giocato praticamente tutte le partite. Ieri sera, ha dato ancora volta mostra del suo straordinario talento, segnando la rete del 2-1, che ha dato la vittoria alla sua squadra del cuore contro il Dortmund.
“Trattami come un uomo, non sono un bambino, non mi diverto più”, cantano gli Stadio proprio in “Generazione di fenomeni”. Quando è uscita la canzone tutti e tre dovevano ancora nascere, ma la frase calza a pennello con le loro, ancora giovanissime, carriere. A questi tre aggiungiamo anche Kylian Mbappé (questa sera in campo contro il Bayern Monaco) che, nonostante i suoi 22 anni, sembra già “vecchio”.
Alla fin dei conti non male questa generazione Z: “una generazione di ragazzi con i piedi per terra e la testa fra le nuvole, o meglio una generazione di fenomeni”.
Fonte foto: flickr.com
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Giuseppe, classe 1999, aspirante giornalista, è laureato in Scienze Politiche (Relazioni Internazionali) ma, fin da piccolo, è appassionato di sport e giornalismo. Simpatiche, si fa per dire, le scene di quando ancora bambino si sedeva nel bar del padre e leggeva la Gazzetta dello Sport “come quelli grandi“.
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