Il mondo intero non fa che parlarne. The Last Dance è indubbiamente il fenomeno mediatico del momento. Tanto da consacrarsi come serie più vista su Netflix, superando anche la Casa di Carta.
C’era da aspettarselo? Il progetto The Last Dance è congelato proprio dal 1998 per ordine del “burattinaio dei burattinai”. Michael Jordan non è solo il superatleta che ha dato grandezza agli anni ’90. A oggi è prima di tutto un imprenditore di successo, capace di fare le scelte giuste al momento giusto. E a tal proposito non si possono muovere critiche: farlo uscire 22 anni dopo è stata una mossa azzeccatissima. Vuoi per le interviste ai protagonisti nei giorni nostri, vuoi per la velocità di questo secolo (e dei mezzi che usiamo, come i social) aspettare il momento giusto è stato proficuo. A modesto parere di chi scrive siamo di fronte al documentario sportivo più bello di sempre. Innegabilmente uno dei più riusciti.
Nonostante ciò “The Last Dance” non è stato esente da critiche. Ingiustificate esagerazioni, colpi bassi e marginalità per alcuni personaggi. I difetti in questa serie capolavoro non mancano e alcune non sono di poco conto.
Partiamo dalla fine: “diamo a Cesare quel che è di Cesare“. Perché sì, il sentore che a Jerry Krause non sia stato dato il giusto merito è comune a molti. L’esigenza narrativa di un “nemico” era troppo forte e limitarsi agli avversari in campo era troppo scontato.
Nel 1985 venne chiamato da Reinsdorf per costruire una squadra competitiva attorno a Michael Jordan. Detto, fatto: al draft 1987 vennero scelti Scottie Pippen e Horace Grant. Poi nell’89 la scelta di licenziare Collins (adorato da MJ) e promuovere Phil Jackson. Nel 1990 venne selezionato Kukoc (che arriverà nel ’93 e risulterà fondamentale per il secondo three-peat), mentre nel ’95 è il turno dell’ex Pistons Rodman, scambiato per Perdue.
Senza Krause, uno dei miglior GM della storia NBA, non avremmo mai sentito parlare della dinastia Bulls, di Coach Zen, e di tutti i grandi protagonisti della serie che abbiamo appena visto.
Non puoi costruire una squadra di successo con troppi contratti pesanti. Specie per il modello NBA (che non staremo qui a spiegare). E quel pezzo di carta firmato dal numero 33 ha avuto un’importanza cruciale, a tal proposito. Partiamo da un assunto: i contratti vanno rispettati. Lo fanno le società quando il giocatore non offre prestazioni all’altezza o un brutto infortunio lo costringe per intere stagioni lontano dal parquet. Allo stesso modo devono comportarsi i giocatori stessi.
Pippen nel 1991 fece una scelta ben precisa: un contratto lungo dal minimo rischio. Mantenere la famiglia povera era una priorità e già ai tempi non si sapeva se la schiena avrebbe retto o meno. Oltretutto le cifre proposte inizialmente erano all’altezza. Fu poi l’improvviso boom economico della lega a decretarne il minor valore. I contratti lunghi vanno a favore di una parte o dell’altra. Di milioni buttati a causa di un talento mal fiutato o infortuni duraturi ne abbiamo visti tanti, nella storia NBA. Semplicemente, ai tempi, furono i Bulls a trovare un vantaggio. Ma il mondo dei contratti è così che funziona, anche nello sport.
Era ovvio che The Last Dance si concentrasse più su certi personaggi che su altri. Rodman, Jackson e Pippen sono stati fondamentali e hanno avuto il giusto spazio. Anche il “Jordancentrismo” non sembra stonare affatto con la realtà dei fatti: si vince di squadra, ma MJ era la star assoluta. Una star ormai più grande dei Bulls e della NBA stessa. Dare spazio in più ad altri grandi protagonisti di quella dinastia, però, sarebbe stato consono.
Kukoc rientra nel terzetto più forte di sempre grazie a Jordan e Pippen, ciò è innegabile. Solo le sue statistiche, però, potevano affiancare quelle del miglior Big Two di sempre. Superando addirittura Rodman e Grant. Un giocatore che, negli anni trascorsi con il 23 e il 33, aveva una media da 13,9 punti, 4,6 assist e 1 recupero a partita. Mica bruscolini. Eppure, sembra che la sua storia venga più legata all’ennesima rivalità creata da Jordan (per trovare altre motivazioni) e Pippen che per il suo reale contributo ai successivi titoli.
Spazio esiguo dedicato anche a BJ Armstrong. Il cestista di Detroit ha assunto un ruolo di fondamentale importanza nel primo three-peat a Chicago. Ma non solo: nel 1994, in occasione del primo ritiro di MJ, riuscì a essere uno dei migliori interpreti, guadagnandosi la chiamata al prestigioso All Star Game di quell’anno. Invece in The Last Dance la sua figura viene relegata a mero antagonista dei Bulls. Come se avesse più importanza aver osato sfidare e battere His Airness (per poi perdere l’incontro dopo) che per la splendida carriera in NBA. Più o meno lo stesso per Horace Grant: terzo uomo dei primi Bulls, la sua figura non viene esaltata a dovere, venendo usata per la diatriba della talpa nello spogliatoio o per il passaggio di consegne a Rodman (arrivato appunto per colmare il vuoto lasciato dal 54).
E tutto ciò stona se un giocatore come Kerr (importante e dalla storia personale difficile, ma sempre di un gregario si parlava) riceve più spazio di chi nel sistema Bulls era un perno centrale.
Michael Jordan, ai giorni nostri non è solo l’ex 23 dei Bulls. Icona sportiva, icona di stile e…Meme vivente. Le lacrime durante la cerimonia per l’ingresso nella “Hall of Fame” sono ormai note a tutti. MJ si è poi “confermato” durante la serata dedicata al compianto Kobe Bryant. E anche per The Last Dance si è reso protagonista di un papabile meme. La scena in cui deride le dichiarazioni di Gary Payton sono ormai un’immagine simbolo di questa serie. Fa parte dell’essere Jordan? Probabile. La sensazione un po’ comune a tutti gli appassionati è stata di esagerazione, soprattutto in virtù di chi è stato Payton.
Parliamo di uno dei giocatori più rappresentativi dei Seattle Supersonics. Un giocatore superbo, riconosciuto da molti come uno dei migliori difensori della lega. Il soprannome “The Glove” non è casuale. E, per quanto lo si voglia negare, anche Jordan ne ha pagato le conseguenze. Nella serie di quelle Finals il 23 fu costretto a ben tre partite consecutive sotto i 30 punti (non proprio gli standard di MJ) e la percentuale al tiro fu addirittura del 37%. Le finali del ’96 arrivarono a Gara 6 anche e soprattutto per lui. E nell’anno dei record per Chicago (72 vittore 10 sconfitte) era tutt’altro che scontato un esito del genere.
The Last Dance ha dato ulteriore sacralità a quei Bulls degli anni ’90. Ha ripercorso la grandezza di un’atleta instancabile come Jordan e le storie personali di quei protagonisti senza tempo. Ha dato prova, nella sua perfezione, che anche un prodotto cult dal sicuro successo non è scevro da critiche.
Francesco Mascali
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Proprietario, editore e vice direttore di Voci di Città, nasce a Catania nel 1997. Dopo aver conseguito il diploma scientifico nel 2015 intraprende gli studi universitari presso il dipartimento di Giurisprudenza di Catania. Ama viaggiare, immergersi nelle serie tv e fotografare, ma sopra tutto e tutti c’è lo sport: che sia calcio, MotoGP o Formula 1 non importa, il week-end è qualcosa di sacro e intoccabile. Tra uno spazio e l’altro trova anche il modo di scrivere e gestire un piccolo giornale che ha tanta voglia di crescere. Da aprile 2019 è un giornalista pubblicista iscritto regolarmente all’albo professionale. La sua frase? «La vita è quella cosa che accade mentre sei impegnato a fare altri progetti»