Nonostante le innumerevoli differenze che intercorrono fra le varie lingue del mondo, molte di loro hanno in comune una pronuncia e una scrittura simile delle parole con cui si designano i genitori: “mamma” e “papà”. Come mai?
La teoria più diffusa che tenta di spiegare tale fenomeno si basa sulla derivazione dal comune ceppo indoeuropeo per la stragrande maggioranza degli attuali idiomi europei, “esportati” in molti casi anche in altri continenti: fanno eccezione soltanto il basco e le lingue ugrofinniche, parlate principalmente in Ungheria, Finlandia ed Estonia. Ciò chiarirebbe come mai tutt’oggi siano rimaste poche variazioni sul tema: si dice “mom” in inglese, danese e armeno, “mamá” in spagnolo e greco, “maman” in francese, “mamae” in portoghese, “mom” in tedesco, svedese e polacco, “mama” in olandese, sloveno, lituano, russo, ucraino, bulgaro, bosniaco, bielorusso, rumeno, serbo e croato, “mamma” in italiano, islandese, norvegese e lettone, “maminka” in ceco, “mami” in albanese e “mamicka” in slovacco. E si dice “baba” in bangla, africano dell’est, turco, persiano, luo (in Kenya), kikuyu e kiswahili, “papa” o “papà” in italiano, francese, cree, olandese, ungherese, hindi, russo, spagnolo, giapponese e venezuelano, “pop/poppa/papa” in inglese, “ba” in cinese, “abba” in ebraico, “pappa” in svedese e norvegese, “pai” in galiziano e portoghese, “papi” in tedesco, “bapa” in indonesiano e malesiano, “babbas” in greco moderno.
Come si comprende analizzando le lingue citate nell’elenco, la teoria non è del tutto realistica se si pensa a idiomi quali il cinese, l’eschimese, lo swahili o la parlata delle isole Fiji, tutti luoghi in cui l’influenza indoeuropea è stata più o meno inesistente. Una diversa chiave interpretativa è stata proposta, quindi, nel 1959 dal noto linguista Roman Jakobson, secondo cui la vocale “a”, aperta per eccellenza, sarebbe la più semplice da pronunciare per un neonato, perché richiede solo l’apertura della bocca e la vibrazione delle corde vocali; idem per la consonante “m”, emessa con facilità se si cerca di parlare a bocca chiusa: da qui, la pronuncia della parola “mamma” nelle sue diverse varianti. Quando poi si tenta di riprodurre lo stesso effetto aprendo le labbra nel parlare ecco che, se si batte la lingua contro il palato, si dà vita al termine “papà”, o “dad” e simili. Secondo Jakobson, quindi, ciascuna cultura ha poi attribuito lo stesso valore semantico a queste prime sillabe pronunciate dai parlanti nativi, con una grafia di volta in volta diversa e adattata al sistema fonetico dell’idioma.
A partire da tali ipotesi, la linguista Johanna Nichols ha incluso nel medesimo ragionamento anche i pronomi personali di prima e seconda persona singolare, per i quali effettivamente continuano a sussistere non poche similitudini: “me” e “te” in italiano sono “moi” e “toi” in francese, “mí” e “ti” in spagnolo, “men’ja” e “t’ebja” in russo, “met” e “tet” nelle lingue siberiane”, “me” e “you” (anticamente “thou”) in inglese e così via. Sebbene le differenze linguistiche siano, in tal caso, molto più marcate (vedi il cinese con “wo” e “ni” o l’indonesiano con “saya” e “anda”), la Nichols propone l’associazione del fonema “m” a sé stessi, in quanto primo suono imparato nella propria vita, e del fonema “p”/”t” all’altro da sé, anche se molto prossimo: da qui, sia le forme per designare i genitori sia quelle dei suddetti pronomi personali.
Confermare o smentire con certezza scientifica ciascuna delle teorie proposte è piuttosto difficile, in quanto non si possiedono ancora gli strumenti conoscitivi per avanzare una spiegazione sempre valida e per ogni lingua parlata sul pianeta: tuttavia, l’autorevolezza e i riscontri positivi delle già citate ipotesi lascia pensare che ciascuna possa avere un fondo di verità, forse amalgamato alle altre o forse solo relativo, eppure in ogni caso innegabile e contemporaneamente affascinante.
Eva Luna Mascolino
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