L’attimo prima di un bacio, quello dopo un abbraccio; un senso di colpa che riaffiora, il sapore del boccone finale di quel pranzo a casa della nonna di cinque anni fa. Tutti istanti a cui ne asserviamo tanti altri, per il gusto di prolungarli, raccontarli. Li cerchiamo, li inseguiamo nel presente, li ripeschiamo dal passato e, a volte, quando la memoria ci abbandona e la conoscenza li e ci ignora, con una certa proprensione al controllo, li immaginiamo. Cosa prova un bambino quando apre gli occhi per la prima volta? Cosa sente un uomo in coma? Quanto soffre un malato terminale che non può parlare? E quando moriamo, ce ne accorgiamo?
La risposta a quest’ultimo comune interrogativo secondo quanto pubblicato sul Mirror sembrerebbe – verrebbe da dire ahimè – positiva. Uno studio scientifico coordinato dal dottor Sam Parnia, infatti, porterebbe a ritenere che nei secondi successivi alla morte, seppur per un tempo limitatissimo, il cervello continuerebbe a funzionare tanto da percepire, ad esempio, la voce di un medico che ne constati il decesso.
La ricerca si è basata parecchio sull’esperienza di chi è sopravvissuto a un arresto cardiaco: questi ultimi, spesso «raccontano di aver visto i dottori e le infermiere lavorare intorno a loro e si ricordano le loro conversazioni». Scoperta che, da una parte, potrebbe rievocare la macabra immagine di chi viene sepolto vivo. La voglia di esalare un ultimo respiro soffocato dalle nostre stesse carni. Così, forse, la morte ci ricorda fino all’ultimo che l’uomo è anima e corpo, è padrone di sé, ma schiavo della sua stessa natura. Stupisce, invece, dall’altra, quanto si possa essere vivi anche quando si muore.
Concetta Interdonato
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