CATANIA – Le immagini proposte dall’apparato mediatico e dai dispositivi politici, promosse dalle forze più conservatrici che animano sia l’arena politica in diversi contesti nazionali e locali, sia il dibattito in alcune comunità scientifiche, tendono sempre più verso una repressione sistematica di quelle configurazioni della socialità e soggettività che rimandano alla diversità e al dissenso. Il fatto migratorio, da considerarsi come processo, è un “fatto sociale totale” perché esso è, allo stesso tempo, individuale e collettivo, economico e politico, religioso e simbolico, culturale. I Paesi d’emigrazione, inoltre, non hanno alcun interesse a porre limiti alla fuoriuscita dei loro cittadini, perché alleviano così la pressione sociale e politica di una disoccupazione troppo elevata. Ma non si muovono tutti coloro che vorrebbero farlo. In primo luogo, perché le politiche degli Stati, per quando disorganiche, sono efficaci nel contenimento delle partenze di massa. In secondo luogo, nei Paesi d’emigrazione non tutti dispongono di quei capitali economici e materiali necessari per intraprendere un viaggio verso il futuro. Lo spauracchio dell’invasione “straniera” (una costante risposta, in Europa, ai movimenti di persone nell’era della globalizzazione) non ha quindi alcuna concretezza empirica; è spesso solo propaganda ideologica e politica agitata dagli imprenditori della paura, partiti e movimenti della destra e dell’estrema componente nazionalista e neo-fascista.
È bene ricordare che i flussi migratori hanno la caratteristica, una volta stabilitisi, di autoalimentarsi attraverso reti sociali internazionali e transnazionali, continuando a operare anche quando si sono esaurite le ragioni originarie che avevano dato loro inizio. In ogni caso, nella realtà, né le politiche né le pratiche si rivelano necessariamente efficienti o razionali. Nei Paesi dell’Occidente democratico, per esempio, le politiche varate dai parlamentari nazionali e dai governi, rispondono spesso a criteri contingenti di natura elettorale.
Quali sono gli effetti delle interazioni tra i migranti (compresi quelli forzati) e le strutture che s’incaricano della loro accoglienza e del loro inserimento nel tessuto sociale? Si può osservare, a tal proposito, l’attività svolta dal centro interculturale Casa dei Popoli di Catania. La dott.ssa Paola Scuderi, responsabile del centro, ci racconta come prende vita e cosa c’è alla base di tale progetto: «Il Comune di Catania ha attivato la rete territoriale sin dalla nascita di Casa dei Popoli nel 1994, ritenendo che nel confronto si cresca tanto. Il supporto territoriale è fondamentale, la crescita di una città avviene nella condivisione dei percorsi al di là della normativa, i dettami in ambito educativo permettono di migliorare tutti insieme. Questa dunque è la rete, che definirei il “canovaccio culturale” dell’ufficio, che risiede nel valore del cambiamento attraverso i contatti positivi. Curiamo rapporti con le scuole, con la rete territoriale del volontariato e delle associazioni di stranieri, con le aziende sanitarie. A proposito di queste ultime, intratteniamo una collaborazione proficua con il servizio di psichiatria transculturale in particolare per il sostegno ai richiedenti asilo: si tratta di un rapporto importante, in quanto il disagio della migrazione esiste. Collaboriamo con la Prefettura, la Questura, i Carabinieri e con la Provincia. Ci sono vari livelli di comunicazione,“rete formale” e “rete informale”. Cerchiamo di rispondere al territorio e ai suoi bisogni in maniera integrata con le altre realtà. Credo che il percorso di crescita di una città si misuri proprio sul percorso della rete che si riesce costruire. Quello che impariamo crescendo insieme agli altri deve diventare patrimonio del territorio». Grazie alle iniziative e ai servizi offerti, Casa dei Popoli ha contribuito in modo determinante a sviluppare un profondo e positivo rapporto fra le “culture altre”, l’Amministrazione e il territorio. Tuttavia, la parte interculturale è limitata solo ad alcuni momenti dell’anno, perché, continua la Scuderi, «avendo meno fondi, come tutti i Comuni, è complicato sviluppare spesso questo genere di attività».
La struttura Casa dei Popoli si è rivelata negli anni produttiva poiché è nata in una città, Catania, che non era al tempo “multiculturale”. Fu Enzo Bianco, inizialmente, a volere un centro, un luogo dove si potesse incontrare quest’immigrazione nascente più come un fatto culturale che altro, poiché non esistevano emergenze. Via via che passava il tempo, si è ravvisata l’esigenza di essere più un centro di servizi adatto alla realtà dell’immigrazione che mutava e nel 2000 l’ufficio ha attivato, con fondi ministeriali, in collaborazione con il Consorzio di Cooperative Sociali Il Nodo, percorsi di accoglienza e integrazione per richiedenti asilo, rifugiati e titolari di protezione umanitaria. Sul piano dei dati, i residenti extra-comunitari e comunitari ammontano, al 31 dicembre 2014, rispettivamente a 10.562 e 3.092, per un totale di 5.964 famiglie extra-comunitarie e 2.197 famiglie comunitarie.
Tra le finalità che possono essere annoverate, vi sono: la conservazione delle culture diverse dalla nostra, nell’ottica di una società multirazziale e interculturale; la promozione a livello locale di valori quali solidarietà, pace e cooperazione tra i popoli; l’educazione al rispetto della diversità; la tutela dei diritti umani; l’acquisizione di lingue e linguaggi diversificati; la diffusione d’informazioni; la valorizzazione delle risorse presenti nel territorio; la promozione di processi di comunicazione e scambio.
Sul piano delle migrazioni la Scuderi rileva che negli anni Catania ha visto cambiare la tipologia degli stranieri, per via anche dell’allargamento dell’UE (in particolare in riferimento a Romania e Bulgaria nel 2007). La dott.ssa parla delle politiche europee nonché dell’informazione: «Chi non conosce e legge soltanto notizie allarmistiche ritiene che quello degli immigrati sia un mondo pericoloso, – e continua – la Sicilia è terra di sbarco a causa della sua vicinanza alla Libia; a livello internazionale si potrebbe pensare di prevedere una primissima accoglienza qui e una seconda accoglienza in Paesi europei che non sono protagonisti di sbarchi, ma che potrebbero offrire di più dal punto di vista lavorativo; inoltre, bisognerebbe rivedere il Trattato di Dublino e sarebbe logico creare veramente una rete fra Paesi, popoli, tradizioni diverse e fare in modo che si risponda in maniera uniforme, europea a un problema che è mondiale. Dovremmo imparare a saper leggere i desideri, perché se in fondo è un diritto fuggire da un Paese in guerra, è anche un diritto poter ricostruire la vita nei Paesi d’approdo».
Enrico Riccardo Montone
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