Vento di novità per la casa d’alta moda Dolce&Gabbana: in questo 2016 appena iniziato, i due stilisti del brand hanno già ampiamente avuto modo di essere chiacchierati e, spesso, anche criticati. Perché? Per la nuova collezione prêt-à-porter Abaya, dedicata, con 14 look, alla donna musulmana. Focus in primis su hijab (ovvero i veli che lasciano scoperto il viso) e abaya (da cui il nome, cioè le lunghe tuniche che mostrano solo capo, mani e piedi e che vengono indossate dalle donne musulmane per coprirsi al fine di preservare il loro pudore), ma senza dimenticare gli accessori, tanto cari al mondo islamico contemporaneo. Un modo tutto nuovo per interpretare l’hijab, con un tocco tipicamente made in Italy. Ecco, dunque, che i copricapi più usati si rianimano con patchwork, cromie e tessuti: limoni, pois, ma anche paisley e margherite (anticipazioni, tra l’altro, di alcuni trend della stagione primavera/estate 2016) da abbinare agli abayas neri, trasparenti, con ricami a contrasto, in georgette di seta semitrasparente e in satin e spesso arricchiti da pizzi e da ricami. I colori prescelti sono nero luxe e sand beige, nel pieno rispetto della neutralità e sobrietà imposta.
La collezione non è stata pubblicizzata come è solito fare con le altre. È stato, poi, Stefano Gabbana a lanciarla ufficialmente sul suo profilo Instagram con didascalia composta da un solo hashtag, #dgabaya. «Siamo rimasti davvero affascinati dal Medio Oriente e siamo al lavoro su una collezione prêt-à-porter di abaya e hijab ricca di pizzi, ricami e stampe. Non è un discorso politico né religioso: la moda deve rimanere sempre e completamente super partes» dichiaravano un anno fa così i designer, a fronte delle numerose critiche sorte in tutti i social network, a proposito di una possibile “islamizzazione”del mondo e della cultura occidentale. Non è certo la prima volta che una casa di moda occidentale si rivolge anche al mercato musulmano, lo hanno già fatto prima di Dolce&Gabbana anche DNKY , Tommy Hilfiger e Monique Lhullier o il colosso della moda svedese H&M. Come mai questo interesse specifico per il mondo islamico? Pare che al Turin Modest Fashion Roundtable di qualche mese fa il report State of the Global Islamic Economy 2014/2015, di Thomson Reuters e Dinar Standard, riportava dati in grande espansione: stimando che nel 2019 i musulmani spenderanno 484 miliardi di dollari in prodotti di moda, abbigliamento e calzature, a fronte dei circa 300 miliardi di dollari del 2014.
A sottolineare come sia il womenswear ad assorbire a maggior parte dei ricavi generati dall’industria della moda nei paesi che aderiscono alla Organisation of Islamic Coperation (OIC), è, invece, lo studio Doing Business in Halal Market di Euromonitor International, segnalato da Moda 24 del Sole 24 Ore. Nel 2013, l’abbigliamento donna ha generato un terzo dei ricavi di settore (il 34%), seguito dal menswear (27%), dalle calzature (21%), dall’abbigliamento junior (12%) e dagli accessori (3%). Un investimento importante quindi, quello fatto dalle case di alta moda occidentali. Si è parlato, però, di un inchino al mondo musulmano che rischia di islamizzare anche la società occidentale. Ma perché continuare a credere che il velo (spesso anche confuso col burqa o niqab, cioè il velo integrale per i quali si apre tutt’altro discorso) sia una sorta di costrizione per le musulmane? Il velo può essere per le giovani musulmane tanto seduttivo e personale, quanto per un’ “occidentale” portare la minigonna. D’altro canto, la rete abbonda di blog sulla moda hijab e di fashion blogger agguerritissime e informatissime. Portare l‘hijab in molti casi è per molte, semmai, rivoluzionario e una forma di libertà dalle pretese occidentali.
Chiara Grasso
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