“Io ero il mio unico limite in quello che potevo e volevo fare”:
Anna Romanin riassume in tal senso successi, progressi, obiettivi e cause motivazionali che indubbiamente hanno accompagnato mente e corpo durante il suo percorso formativo in Turchia. Si parla frequentemente di SELF-AWARE e SOLUTION ORIENTED, di oltrepassare gli ostacoli al fine di ottenere consapevolezza, di imparare a esser grandi nonostante obbligati a sbattere la testa su centinaia di pagine per un futuro migliore, con la possibilità che l’unico scarto di tempo a disposizione sia quello di pensare a quanto lontano in realtà sia questo futuro.
L’unico posto riservato ai giovani nel secolo VENTUNO è quello di subire rappresaglie altrui, adattandosi a un mondo che viene di volta in volta costruito e che nella sua costruzione automatica e selettiva si solidifica, tanto da prendere una forma che in realtà appare poi essere la sua originale. Cosa non poco meno assurda è che, assunta una posizione di rilievo, a patto che essa ci venga riservata, si è così assuefatti da queste forme, a tal punto da ritenere poco possibile o poco rispettoso cambiare l’assetto di un mondo ormai bello e pronto. In accordo a quanto detto sarebbe allora inutile ambire a questa resilienza così tanto professata, quasi banalizzata, da esser talvolta usata per un tatuaggio qualunque.
AIESEC non vuole un mondo facile e nemmeno crede possa esser pensabile, AIESEC crede in un modo dinamico che si trasforma continuamente, non in un mutatis mutandi con la possibilità di adattare la stessa soluzione a variegate circostanze. Un mondo in cui la forma è data dalle persone, e il cambiamento possa esser realizzato solo se a esso si è disponibili preventivamente in prima persona.
Portiamo inconsapevolmente, e spesso attraverso un’inconsapevolezza volontaria, il marchio di una gioventù bruciata, il marchio di Spritz e Long Island in riva al mare, di tempo perso ed esami arretati, addirittura negli ultimi mesi ci hanno addossato anche poca consapevolezza in termini di responsabilità nei confronti della salute. Eppure, c’è AIESEC che del suo essere governata da giovani fa la sua più grande ricchezza, la sua più grande peculiarità e non certamente una sottolineatura di mancanza. AIESEC dà la possibilità di crescere facendo, learn by doing, senza che crescita e formazione siano step l’uno dell’altro, facendo sì che questi possano, altresì, andar a braccetto.
Un CLASS-SHOUT non è solo crescita né solo formazione, è crescita formativa. È la responsabilità data a un giovane studente universitario di poter indirizzare il percorso formativo di altri pari. Entrare in una stanza virtuale o fisica, qualunque essa sia, e presentare un percorso di tirocinio, preventivamente adattato alle competenze di coloro a cui si parla, non è solo la possibilità di fare una bella esperienza ed esercitare il public-speaking, è altresì la possibilità (e oserei dire l’onore) di potere cambiare la vita di qualcuno, di poter rendere possibile che Caio e Sempronio vivano una delle esperienze che, ritornando al cambiamento, più li muterà e più muterà moralmente e professionalmente.
Anna Romanin sono io che prima di conoscere AIESEC perseveravo all’interno di quei limiti imposti su di me da una società che pretende lo sforzo senza lasciare spazio per operare.
Anna Romanin è Fares Hayouni, che nel Maggio del 2018, con il supporto di tutta la comunità di AIESEC, un microcosmo all’interno di un mondo più vasto e siffatto di relazioni interculturali, ha deciso di sposare un’esperienza di tirocinio in Egitto che da lì a poco avrebbe per sempre cambiato la sua vita; che da lì a poco avrebbe per sempre dato a Fares dei filtri, non usa e getta, con cui guardare il mondo al di là di ogni prospettiva.
Immediatamente scioccato dalla nuova cultura alla quale si affacciava, culture-shock in termini oserei dire psicoanalitici, Fares descrive la sua prima settimana a El Cairo come un vero e proprio disastro. E quella percezione di disastro, più che da un vero e proprio malessere, dipendeva verosimilmente, a detta dello stesso, dal punto di vista con il quale guardava quella cultura: quelle persone che fino a quel momento conosceva possibilmente da un disparato libro di geografia o un dissimile documentario, quella città che aveva visto nei servizi dei telegiornali locali, quel mos maiorum del quale conosceva poco o meno la coltivazione di barbabietole da zucchero.
«All’inizio mi sentivo un essere superiore, un tunisino figo all’estero. Non riuscivo ad accettare il fatto che quel paese fosse così diverso dal mio. Non riuscivo ad entrare nei gruppi che man mano si andavano formando. Vedevo gli egiziani mangiare quelle che in primo momento consideravo schifezze e nonostante fossi consapevole del mio pensiero, nel pensare questo sperimentavo di non essere una bella persona, o meglio di non essere una bella persona in quel preciso contesto».
Come si puliscono le lenti degli occhiali, Fares è riuscito, grazie ad AIESEC, a ripulire il suo sguardo nei confronti del diverso, a includere il diverso all’interno di questo grande macrocosmo che è il mondo, di cui NOI siamo parte infinitesimale, di cui, citando indirettamente Goodman, noi costruiamo costellazioni tracciando determinati confini piuttosto che altri.
Anna Romanin è comunque ogni AIESECer che si accorge di quanto questi limiti dipendano piuttosto da un campo d’azione inesistente, interno o esterno, un’inettitudine da sradicare affinché il libero arbitrio e volontà di cambiare se stessi e gli altri possano trasformarsi in una leadership altruista, il cui scopo non è quello di presiedere al di sopra di un mondo bello e fatto, piuttosto di viverci dentro modificandolo vicendevolmente, rendendolo accessibile a ogni esigenza con i mezzi adatti a varcare qualsiasi barriera ideologica o anagrafica.
Davide Lo Buono
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