Tema molto dibattuto dell’ultimo periodo, e spesso in toni non troppo pacati, è lo strano caso abbattutosi sui libri di Agatha Christie (1890-1976). La voce della brillante scrittrice di romanzi polizieschi è stata, in un certo qual modo, “censurata” e sovrastata. La casa editrice HarperCollins, infatti, ha optato, ai fini di una nuova edizione dei romanzi di Christie, per l’espunzione di certe parole o espressioni ritenute razziste o, più in generale, non consone alla sensibilità moderna.
Andrebbero sostituite o del tutto soppresse alcune note etniche presenti nella descrizione di certi personaggi, così come molte parole oggi considerate “politicamente scorrette”: a titolo di esempio bastino “nativo”, “ebreo”, “orientale”, “zingaro”, fino ad arrivare alla n-word. Per quanto piccole queste modifiche possano apparire, è chiaro che pur si tratta di una forma di “violazione del testo”, violazione che non tutti riescono ad accettare.
La notizia riguardante questa nuova edizione “edulcorata” delle opere di Agatha Christie ha, difatti, suscitato un dibattito dalla grande eco mediatica. Da un lato vi sono gli strenui sostenitori di un rispetto per le differenze e per la sensibilità altrui, favorevoli, quindi, a una modifica dei testi affinché non risultino offensivi per nessuna categoria. Dall’altro, i difensori dei testi letterari e del rispetto anche a questi ultimi dovuto. A che titolo, con quale autorità si può intervenire sulla vena creativa di un autore o di un’autrice e su testi che hanno già una lunga tradizione? – si chiedono probabilmente i secondi.
Quando ci si trova davanti a casi del genere è sicuramente utile osservare una linea del tempo e tentare di storicizzare il tutto. I termini usati da Christie e i personaggi da lei descritti non sono altro che specchio dei tempi da lei vissuti, ormai un centinaio di anni fa, ai tempi del colonialismo. Al di là del fatto che la nostra autrice ragionasse o meno tramite questi stereotipi – terreno per noi forse insondabile – ciò che ne emerge sono veri e propri documenti dell’epoca: le caratterizzazioni dei suoi personaggi e le espressioni da lei usate si costituiscono come punto privilegiato di osservazione di una società tanto diversa dalla nostra. Una volta acquisito uno sguardo critico, diventa possibile dialogare con un testo senza metterlo a tacere. D’altronde, chi mai penserebbe di espungere la parola “barbaro” dai nostri classici greci e latini?
Responsabili di interventi come quelli effettuati sui testi di Christie sono spesso ritenuti i sensitivity readers. Ma di cosa si occupano davvero questi ultimi?
Quella del sensitivity reader, espressione traducibile con “lettore per argomenti sensibili”, è un’emergente figura professionale nel campo dell’editoria, soprattutto anglosassone – anche se si sta diffondendo rapidamente pure in altri paesi. Si tratta di una figura, esperta nel settore editoriale e letterario, che va a effettuare una lettura mirata dell’opera. Si tenta, infatti, di scovare nel testo e segnalare all’autore o all’autrice eventuali passi che possono offendere determinate categorie, urtarne la sensibilità o, più semplicemente, farsi veicolo per l’espressione di stereotipi o discriminazioni non intenzionali.
Questo è sicuramente un aspetto a cui, chi scrive oggi, deve prestare attenzione. Ed è proprio per questo motivo che, spesso, scrittrici e scrittori non solo apprezzano, ma anche ricercano i consigli dei sensitivity readers. Il dialogo può essere parecchio proficuo, l’apporto all’opera sostanziale.
Ancora una volta, è bene fare una differenza: se tale pratica è utile e anche in rapida crescita per quanto riguarda il materiale esaminato dalle case editrici in vista di una prossima pubblicazione, diversissimo è il caso in cui un autore non possa più né ricevere i consigli né accettare o respingere le modifiche, semplicemente per il fatto che non vive nel presente.
Parlare di cancel culture vuol dire impelagarsi in un terreno scivoloso e parecchio dibattuto, di certo non semplice. La cancel culture, secondo la definizione della Treccani, è un «atteggiamento di colpevolizzazione, di solito espresso tramite social media, nei confronti di personaggi pubblici o aziende che avrebbero detto o fatto qualche cosa di offensivo o politicamente scorretto e ai quali vengono pertanto tolti sostegno e gradimento».
È chiaro che questa definizione contempli unicamente il piano sincronico. E (forse) fin qui nessun problema: d’altronde, è proprio in questo modo che ha sempre funzionato l’opinione pubblica.
Il problema si pone soprattutto, ma non unicamente, quando a cadere nel vortice della cancel culture sono espressioni culturali del passato. Quando si chiede la rimozione di statue o di simboli; quando si censurano dei libri. Quando, insomma, si boicotta o si ostracizza qualcosa che in passato aveva diritto di parola e di espressione, ma che adesso viene privato di voce e visibilità.
L’interrogativo rimane sempre lo stesso: è lecito cancellare parti del nostro passato, della nostra storia, solo perché oggi, secondo i paradigmi attuali, sono considerate amorali o immorali? Non sarebbe meglio problematizzare, storicizzare e contestualizzare ogni cosa piuttosto che, forse per semplicità, rimuoverla dal nostro campo visivo?
Carla Migliorisi
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Articoli di proprietà di Voci di Città, rilasciati sotto licenza Creative Commons.
Sei libero di ridistribuirli e riprodurli, citando la fonte.
Ti piacerebbe entrare nella redazione di Voci di Città? Hai sempre coltivato il desiderio di scrivere articoli e cimentarti nel mondo dell’informazione? Allora stai leggendo il giornale giusto. Invia un articolo di prova, a tema libero, all’indirizzo e-mail entrainvdc@vocidicitta.it. L’elaborato verrà letto, corretto ed eventualmente pubblicato. In seguito, ti spiegheremo come iscriverti alla nostra associazione culturale per diventare un membro della redazione.