È tornata l’estate e con lei il caldo, le spiagge affollate, le notti insonni, i tormentoni musicali, i viaggi e le bollenti diatribe stagionali. Tra quest’ultime non poteva mancare quella tra Burkini e Bikini. Il costume da bagno che copre il corpo dalla testa alle caviglie è stato, come è noto, al centro di lunghe polemiche. Questa volta il dibattito, però, non è fomentato dalla morale occidentale, ma è divampato in loco. È nella spiaggia di Annaba, in Algeria, infatti, che lo scorso 15 luglio quasi 3000 donne – secondo quanto riportato da varie testate giornalistiche internazionali – si sono date appuntamento: tutte quante meticolosamente in bikini. Le proteste nei giorni antecedenti avevano già preso il via in maniera disomogenea in diverse zone locali; quella di sabato tuttavia ha evidentemente avuto portata nettamente più ampia, dal piano numerico a quello simbolico. Diffondendo l’obiettivo dell’evento attraverso la rete, le partecipanti hanno offerto alla stampa l’occasione per far parlare di loro ancor prima della simbolica manifestazione.
Lo scopo del raduno è mostrare opposizione nei confronti di una mentalità inventata su un radicato moralismo maschilista. Il gentil sesso, invero, è costantemente posto sotto pressione da estremismi sessisti anche quando prendono il sole. Sono molti, difatti, gli uomini che intimidiscono e minacciano le bagnanti che preferiscono non indossare la tunica imposta dalla religione islamica. Le incitano a coprirsi o addirittura ad allontanarsi, rendendo quelli che dovrebbero essere attimi all’insegna di serenità, relax e spensieratezza, momenti in cui patire oppressioni per aver semplicemente esplicato il proprio libero pensiero.
I c.d. «Comitati del pudore» si aggiravano per le coste balneari già nel 2014 con la finalità di farsi portavoce per garantire il costante completo rispetto alla religione musulmana. La campagna «spiagge islamiche con valori algerini» era stata tra l’altro lanciata da un gruppo di giovani provenienti dai quartieri popolari della capitale Algeri, (tra cui Bab el-Oued, al-Raies Hamido e al-Hammamat) , in collaborazione con alcune moschee e imam locali. Il problema ha raggiunto oggi entità tali da esplicitare la necessità ad intervenire. Ad Annaba si è arrivati persino a una denuncia social: foto di donne in bikini spiattellate su Fb alla portata di tutti, come si trattasse della più scostumata tra le azioni.
Se alla cultura occidentale tutto ciò potrà apparire come inconcepibile, lo stesso non può dirsi per la società musulmana nel momento in cui si ammette che l’islamizzazione si afferma infiltrandosi nel modus vivendi dei credenti, influenzando (come d’altronde nel tempo la maggior parte delle religioni) usi e costumi. Non può neppure nascondersi che ciò se spesso è una scelta condivisa, altre – come nel caso – rappresenta una netta interferenza con l’estrinsecazione del proprio essere e soprattutto nell’essere donne.
Non sono pochi coloro che, preso atto della vicenda, giungono alla conclusione secondo cui è innegabile che sia molto più facile trovare una donna in bikini a sostegno del burkini che viceversa. Ma non sono le sole domande da doversi porre. Quanto dovremo aspettare perché una donna, in qualunque parte del mondo si trovi, possa decidere in totale autonomia e libertà quanto (s)coprire il proprio corpo? Quando potrà considerarsi scevra da leggi morali, etiche, religiose legate a falsi perbenismi di chi predica rispetto e poi non ne dà? Smetteremo mai di strumentalizzare il corpo? Capiremo che fa tutt’uno con l’anima o rimarrà sempre un pretesto dietro cui giustificare paure e istinti inconsci? E tutto questo, forse, non lo scopriremo mai.
Concetta Interdonato
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