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Psichiatria: scoperti nuovi metodi per curare le malattie mentali
10 Luglio 2024
scienza

Psichiatria: scoperti nuovi metodi per curare le malattie mentali

Home » scienza » Psichiatria: scoperti nuovi metodi per curare le malattie mentali

In che modo l’alimentazione e lo stile di vita possono influenzare la nostra salute mentale? Ce lo prova a spiegare la scienziata del Dipartimento di Oxford, Belinda Lennox, che propone un metodo innovativo per trattare le malattie mentali e allo stesso tempo ci spiega meglio i passi in avanti che ha fatto la psichiatria dal ‘900 fino ad oggi.

Introduzione alla psichiatria e al ruolo dello psichiatra

La psichiatria nasce come disciplina scientifica attenta ai fattori psicologici, biologici e sociali utili a migliorare la qualità di vita delle persone.

Lo psichiatra è il medico specializzato che si occupa della valutazione del complesso delle sintomatologie legate ai disturbi mentali dei pazienti: inizia osservando il soggetto grazie a un’intervista approfondita, nota come “anamnesi”, per meglio comprendere la storia clinica delle reazioni conseguenti a tali fattori disturbanti.

In sintesi, questo processo coinvolge la raccolta di informazioni riguardanti: “la salute mentale e fisica del paziente, eventi scatenanti, storia familiare di malattie mentali e l’assunzione passata di farmaci o sostanze”.

Se finora la psichiatria si è interessata all’individuazione del campo di sintomatologie presenti nel soggetto come reazioni relative al fenomeno disturbante, le ultime ricerche degli scienziati hanno da poco prestato la loro attenzione alle cause sottostanti tali patologie, che vediamo a breve.

1900, tra psicanalisi ed esperimenti farmacologici

Il ‘900 è stato il secolo che ha dato il via all’approccio della psicanalisi fondata da Sigmund Freud, per capire meglio, attraverso l’interpretazione dei sogni e dei significati inconsci dei pensieri, i meccanismi di comportamento dell’individuo.

In un primo momento, la psichiatria è stata influenzata da queste scoperte geniali, cercando di inserirle nel proprio metodo di ricerca, anche se successivamente questa interessante pista ha lasciato il posto a un’indagine più empirica e biologica.

È, precisamente, dalla seconda metà del secolo che comincia questa famosa transizione che ha portato all’avvento di una nuova era di studi scientifici.

Come per ogni cosa, il passaggio non fu affatto casuale: furono scoperti, infatti, nuovi farmaci come la clorpromazina per la schizofrenia, l’imipramina e l’iproniazide per la depressione, e il carbonato di litio per il disturbo bipolare.

Alcuni studi condotti negli Stati Uniti e nel Regno Unito prima degli anni ’60, hanno visualizzato una forte discrepanza nella diagnosi del disturbo bipolare e della schizofrenia nelle varie istituzioni psichiatriche. Questo capitava a causa dei differenti sistemi di classificazione adoperati da ciascun apparato psichiatrico, che seguiva i propri sistemi diagnostici.

La soluzione si trovò con la pubblicazione del DSM-III nel 1980, che permise di sviluppare un sistema più affidabile escludendo la dicotomia endogena/esogena dei metodi precedenti per adottare un approccio fenomenologico.

DSM: una definizione scientifica

Prima di complicare la comprensione, è necessario spiegare che cos’è il DSM – acronimo di Diagnostic and Statistical Manual of Mental Illnesses – per capire la sua portata nell’ambito della medicina. Si tratta della “Bibbia” della psichiatria, che cerca di “raggruppare diversi sintomi in condizioni discrete, dalla depressione maggiore alla schizofrenia”.

Secondo la direttrice del Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Oxford, Belinda Lennox, il metodo classico della disciplina nel secolo scorso “avrebbe ostacolato la disposizione di test diagnostici o biomaker predittivi a causa della separazione del trattamento della malattia mentale dal resto della medicina”.

La scienziata si riferisce al passaggio dello studio di queste patologie da un approccio psicanalitico e sociale a uno biologico.

La struttura genetica che caratterizza i cervelli affetti da disturbi mentali non si rivela, tuttavia, sufficiente nel rilevare le vere cause che hanno portato il soggetto a sviluppare un certo tipo di malattia. Dunque, quali sono stati i tentativi di base genetica che hanno interessato alcuni degli studi più importanti sulle patologie psichiatriche?

La ricerca delle cause genetiche: utile davvero?

Nel 2013 lo Us National Institute of Mental Health ha tentato di abbandonare il tradizionale metodo classico, per compiere le sue ricerche sui geni connessi alle patologie mentali, senza tuttavia ottenere successo. La causa del fallimento di questa indagine scientifica viene spiegato da Allen Frances, psichiatra della Duke Univesity, come “motivo scadente dal punto di vista clinico”.

Un altro studioso dell’Ospedale Universitario di Friburgo, Ludger Tebartz van Elst, spiega come “i geni non costituiscano una spiegazione adeguata – ponendo fra l’altro come esempio – anomalie genetiche come la perdita di un piccolo pezzetto del cromosoma 22, che caratterizzano condizioni molto diverse tra loro, come l’autismo, la schizofrenia e Adhd”.

La teoria di Lennox sulla relazione cervello-sistema immunitario

Già dal 2007, uno studio eseguito dalla Pennsylvania University ha individuato un centinaio di pazienti affetti da disturbo autoimmune, l’encefalite da recettore anti-Nmda. Si tratta di un’infiammazione del cervello che può provocare traumi e psicosi.

La stessa Lennox aveva da prima individuato una complessa relazione esistente tra il sistema immunitario e le malattie psichiatriche, analizzando campioni di sangue di migliaia di pazienti affetti da psicosi, da cui emergeva un numero elevato di anticorpi (pari al 6% degli interessati), legati appunto ai recettori Nmda (“vie di comunicazione” presenti nei neuroni).

In genere questi anticorpi si predispongono nell’area dell’ippocampo destinata all’elaborazione delle informazioni provenienti dalla memoria a breve termine, il che spiegherebbe la presenza di allucinazioni e credenze illusorie.

La proposta scientifica di Lennox

“Le mie ricerche hanno mostrato che persone affette da malattia mentale possono migliorare in seguito a interventi sul sistema immunitario” afferma la psichiatra, proponendo come rispettiva strategia terapeutica la somministrazione di farmaci immunoterapici o steroidei.

Altre teorie promosse nell’ambito degli studi psichiatrici è quello suggerito dall’operatività della Stanford University nel garantire una clinica di psichiatria metabolica col compito di curare la salute mentale, oltre che con i farmaci, anche attraverso alimentazione e stile di vita dei pazienti affetti da disturbi mentali.

“Dieta chetonica”: che cos’è?

Un esempio di trattamenti delle malattie attraverso la cura dell’alimentazione e stile di vita è la “dieta chetogenica”, la quale restringe l’apporto dei carboidrati bruciando i grassi e stimolando la produzione di molecole note come chetoni, che potenziano il cervello quando il glucosio è assente.

Kirk Nylen, neuroscienziato esponente del Baszucki Group (ONG che finanzia tra l’altro ricerche neuroscientifiche), si è espresso a tal proposito, affermando: “Sono in corso ben 13 trial in varie parti del mondo relativi agli effetti delle terapie metaboliche su patologie mentali gravi, terapie che sembrano funzionare anche su pazienti resistenti a farmaci, stimolazione magnetica transcranica e addirittura terapie elettroconvulsive”.

Inoltre, lo scorso anno, nel 2023, un database medico UK Biobank, ha pubblicato dati che mostrano “un tasso elevato di proteine infiammatorie, come le citochine nelle persone sofferenti di depressione”.

Fonte immagine in evidenza: ilsole24ore.com

Marina Zambito

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