Con il continuo avanzare della tecnologia, un po’ tutti si dilettano nella formulazione di ipotetiche realtà di un futuro, più o meno anteriore, in cui ogni aspetto avrà una dimensione ultra tech e sempre più lontana da quella che è la nostra quotidianità. Tuttavia, arriva un momento in cui ci si accorge che le tanto immaginate realtà lontane sono, invece, più vicine di quanto si possa immaginare. È il caso di Rob Spence, il cosiddetto “uomo eyeborg”, come lui stesso si definì in un’intervista.
Spence è un regista canadese che, in seguito ad un incidente all’età di 9 anni che gli costò la perdita di un occhio (durante una giornata di caccia in campagna, con il nonno), ha deciso di sostituire la protesi – inserita in seguito all’estrazione della cornea – con una videocamera messa a punto esclusivamente per lui. L’osservazione è sopratutto per un regista, l’elemento fondamentale, il punto di partenza per ogni tipo di ripresa e Rob ha svolto la maggior parte della sua carriera con un solo occhio. Infatti, l’idea dell’istallazione di una camera nacque soltanto nel 2008, in seguito alla conoscenza dell’oculista Phil Bowen e dell’ingegnere Kosta Grammatis, cui propose i suoi accattivanti progetti a lungo meditati. L’Omni Vision, una società californiana specializzata in telecamere miniaturizzate per dispositivi portatili, venuta a conoscenza del progetto di Spence, cominciò una concreta realizzazione dell’apparecchio.
Il regista ottenne una webcam di soli 3,2 millimetri, adattata alla forma del suo bulbo oculare, che prevede un micro trasmettitore, una piccola batteria, un’inquadratura e un interruttore magnetico per accendere o spegnere il sistema. Rob non ha mai riguadagnato la vista: non c’è alcun legame tra la macchina e il nervo ottico! Il piccolo impianto cibernetico è in grado di registrare per un massimo di 30 minuti e le riprese vengono trasmesse via wireless. D’altro canto, Spence riferisce che il suo obiettivo non è mai stato la riacquisizione della vista, quanto piuttosto vantare un privilegio che nessun regista al mondo potrebbe negargli: le riprese da un punto di vista assolutamente unico, estremamente soggettivato, sebbene – a pensarci su – surreale. E infatti un documentario è stato già girato utilizzando soltanto le immagini ottenute dal suo piccolo occhio magnetico.
L’uomo non agisce in incognito: un led rosso si accende ogni qualvolta la videocamera sta registrando, così da segnalare a chi si trovi di fronte di essere uno dei tanti fotogrammi spediti via wireless. Il regista canadese ha notato come la presa di coscienza, da parte delle persone, di venire registrati sia una forte limitazione poiché il led rosso agisce come una soglia che distacca la realtà dalla finzione (quella cinematografica, in questo caso) ponendo quei paletti che segnerebbero il confine della privacy. Nel momento in cui la tecnologia diventa parte integrante del corpo di un uomo e del suo funzionamento, quanto può spingersi oltre? Fino a che punto può registrare tutto ciò che vede? È vero che nel caso di Spence non c’è mai stata alcuna violazione della privacy, sia per la suddetta segnalazione con il led, sia perché il regista non ha come scopo quello di registrare tutto ciò che vede. La fusione uomo-macchina risponde, qui, a richieste professionali, quelle di un uomo ambizioso che si impone senza mezzi termini in quello che mostra: i suoi spettatori diventano essi stessi l’impianto cibernetico che riempie il suo bulbo e sono “bloccati” IN un tipo di ripresa che lavora da sola, senza il sostegno di una troupe cinematografica e diventando a tutti gli effetti il più intimo punto di vista di Rob Spence.
Giulia Sorrentino
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