“L’intelligenza artificiale (o IA) è una disciplina appartenente all’informatica che studia i fondamenti teorici, le metodologie e le tecniche che consentono la progettazione di sistemi hardware e sistemi di programmi software. Tali sistemi sono capaci di fornire all’elaboratore elettronico prestazioni che, a un osservatore comune, sembrerebbero essere di pertinenza esclusiva dell’intelligenza umana”.
Questa è la definizione di Marco Somalvico dell’intelligenza artificiale. Essa rappresenta il ramo dell’informatica che studia lo sviluppo di sistemi che siano in grado di replicare capacità tipiche dell’uomo. Ciò è possibile se, esattamente come avviene per gli esseri umani, vengono forniti anche ai computer i cosiddetti dati di training, cioè il bacino di informazioni sulla base del quale sviluppare l’apprendimento.
Secondo Orizzonti Politici, cioè un Think Tank di studenti e giovani professionisti che condividono l’interesse per la politica e per l’economia, l’IA apprende su una quantità sempre più ampia di dati testuali presi da internet, nei quali si possono intravedere valori e pregiudizi che caratterizzano le società contemporanee.
Infatti, un sistema di intelligenza artificiale che apprende il proprio lessico dalle parole più diffuse nel web sviluppa un linguaggio spesso sessista, razzista e molto lontano dalle nuove norme culturali. Si tratta di un linguaggio che risulta essere anche molto distante dal vocabolario che le società odierne tentano di diffondere. Per confermare ciò, basta pensare alla vasta gamma di haters presenti nei social network e i loro commenti per capire quale sarebbe l’effettivo vocabolario che l’IA svilupperebbe.
Il rischio è che venga vanificato quanto fatto da movimenti come MeToo e Blacks Lives Matter, che hanno cercato di introdurre un nuovo vocabolario antisessista e antirazzista.
Ancora più grave è la possibilità che i pregiudizi insiti nel linguaggio più diffuso siano resi oggettivi e diventino parte dell’intelligenza artificiale. Ciò potrebbe accadere perché l’IA non vede il linguaggio come una scelta di valore, ma, ovviamente, come l’acquisizione di una maggioranza di termini dal web.
Inoltre, un sistema di intelligenza artificiale che ha appreso da dati parziali non è nemmeno in grado di cogliere la lingua e le norme culturali dei paesi e dei popoli che hanno meno accesso a internet e di conseguenza una minore impronta linguistica online. L’ennesimo rischio sarebbe quello di creare un linguaggio dell’IA che sarebbe omogeneizzato e che riflette le pratiche dei paesi più ricchi.
L’intelligenza artificiale trova applicazione in ambiti sempre nuovi ed è sempre più presente anche nelle nostre vite quotidiane. La troviamo ovunque: dagli assistenti virtuali come Siri ai chatbot usati per gestire le chat di supporto ai clienti. La ritroviamo anche nei sistemi di automazione che rendono smart le nostre case e le nostre auto.
Tuttavia, accanto a un’adozione sempre più diffusa, crescono i dibattiti sui risvolti negativi che potrebbero derivarne. Ad esempio, la società di consulenza PwC ha analizzato il suo impatto sul mercato del lavoro britannico. Secondo lo studio condotto, nei prossimi 15 anni i sistemi di IA potrebbero rimpiazzare le persone nel 30% dei posti di lavoro nel Regno Unito. Molto dibattuta è anche la questione della misura e della qualità dell’influenza che i programmatori esercitano sui sistemi di intelligenza artificiale.
I programmi dell’IA funzionano con un sistema di «incentivo» perché gli agenti dell’algoritmo utilizzano pronomi, nomi e aggettivi in modo nuovo, creativo e più efficace per il funzionamento del programma. Nonostante la creazione di una lingua interna a un gruppo sia tipico di ogni aggregazione umana, come ad esempio in una squadra di soldati in missione o in un gruppo di amici che fanno un po’ di pettegolezzi con allusioni e soprannomi, l’aspetto preoccupante è che qui si tratta di un codice indecifrabile per gli scienziati stessi. E che si evolve.
Secondo quanto riporta LA STAMPA, il dibattito nella comunità di programmatori e scienziati è ancora aperto.
C’è chi crede sia meglio lasciare che i «bot» sviluppino il loro linguaggio conciso ed efficace. Solo così si formeranno sistemi più rapidi e perfetti, perché non è nient’altro che una forma di stenografia. E c’è chi, invece, è terrorizzato dal non sapere quali decisioni vengano prese dall’algoritmo stesso, in un codice che si sviluppa e cambia con una rapidità (è il caso di dirlo) disumana. Questa divisione fra gli studiosi pone alcune domande: possiamo considerare una garanzia il fatto che siano essere umani a programmare le IA? Esiste un livello di moralità condiviso universalmente, al quale conformare l’intelligenza artificiale? Ammesso che ci fosse, le macchine apprendono in maniera autonoma e imparano a effettuare una valutazione dei dati. Che cosa deriverebbe da una potenziale perdita di controllo sulle modalità con cui l’algoritmo compie delle scelte?
In conclusione, possiamo dire che si sta davvero cercando di contenere lo sviluppo spontaneo dell’Intelligenza Artificiale. Ovvero, nel tempo si sta cercando di modificare e plasmare un linguaggio in codice nato dalla mancanza di non aver inserito un incentivo fondamentale: quello di mantenere l’utilizzo di una lingua comprensibile agli umani.
La sfida del nuovo millennio sarà proprio quella di consentire lo sviluppo di una Intelligenza Artificiale. Questa dovrà essere comprensibile all’uomo e dovrà tenere conto delle diversità linguistiche, dei neologismi che si sviluppano nel tempo e nelle varie parti del mondo.
Silvia Rabuazzo
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