Il 25 marzo del 1300 un tale fiorentino si perdeva in una selva oscura, dando così inizio alla più grande allegoria che il genio umano potesse concepire. Giornata istituita ufficialmente nel 2020, ogni 25 marzo – data fittizia con cui inizia il viaggio nell’Inferno – si celebra il Dantedì. Dobbiamo tanto, anche se spesso lo dimentichiamo, al Poeta per antonomasia: Dante Alighieri.
Dante Alighieri (più correttamente Durante di Alighiero degli Alighieri) vive a cavallo tra il XIII e il XIV secolo. Di famiglia benestante e appartenente all’élite cittadina di Firenze, si forma in varie discipline come ogni erudito del suo tempo. Si impegna soprattutto in ambito letterario, e per questo soprattutto lo ricordiamo, ma non bisogna dimenticare anche il suo ruolo in campo politico – la lotta intestina tra Guelfi e Ghibellini – e militare: era un uomo del suo tempo e al tempo tutti andavano in guerra, letterati o meno.
Fu esponente di punta del Dolce Stil Novo, quel poetare d’amor cortese che tanto passò alla storia; autore di trattati, si ricordano il De Vulgari Eloquentia o il De Monarchia, entrambi in latino, oltre che di molte altre opere di diversa natura. Tuttavia, le sue posizioni politiche – guelfo di parte bianca – gli costarono un esilio: il “Ghibellin fuggiasco” di Foscolo, esperienza quella dell’esilio in seno a cui nacque la sua opera massima, la Commedia. Si spense a Ravenna, senza forse più rivedere quella splendida città sull’Arno.
A proposito di Dante uomo, lo storico medievista Alessandro Barbero ne ha dato un ritratto formidabile:
https://www.youtube.com/watch?v=Gm5t1zd-QO4&ab_channel=AlessandroBarbero-LaStoriasiamoNoi
Un’opera immensa, sotto ogni punto di vista, capace di creare un nuovo immaginario destinato a sopravvivere nei secoli. Un viaggio ultraterreno dal peccato alla beatitudine: così è e sembrerebbe, ma è soprattutto qualcos’altro. Ci troviamo di fronte a uno dei più lucidi e concreti sguardi sul mondo, del tempo e sul nostro: un’opera in grado ad ogni rilettura, in ogni epoca, di trasmettere e rifondare sempre qualcosa di nuovo. Vita, scienza, cultura, fede e tanto altro condensato in un testo di settecento anni fa. Banalmente, se pensiamo all’inferno ci appare impossibile non immaginarlo alla maniera dantesca.
Un percorso personale, senza dubbio: l’esistenza di uomo trasfigurata in versi, in cui è possibile rintracciare ogni aspetto di ciascuno di noi. E se tutto questo non vi sembra abbastanza rivoluzionario per un uomo del medioevo, basti pensare solo al titolo Commedia: il sommo fiorentino ha deciso di intitolare un poema, iniziatore della tradizione alta del volgare, con il nome del genere più umile. Nella forma aulica, la Commedia insiste su tematiche umili e quotidiane, anche le più basse, ed è per questo che è impossibile non apprezzarla.
La dicitura “divina” deriva però da Giovanni Boccaccio: è chiaro che essa tratti di un’esperienza divina, che dalla sofferenza dei gironi infernali porta fino a Dio. Divina, azzardiamo a dire, è però tutta: visionaria, onnisciente e profetica. Un’opera che fa tremare le vene e i polsi.
State freschi, nessuna lezione di grammatica o linguistica vi attende. Ops, è capitato di nuovo. Nell’ultimo periodo del paragrafo precedente e nell’apertura di questo, in entrambi i casi, sono state usate espressioni dantesche. Ogni giorno, senza rendercene conto, usiamo una lingua che deriva in gran parte da quel volgare fiorentino rimaneggiato da Dante Alighieri. Quando scrivete un commento su Instagram, quando parlate a vostra nonna, quando prendete un’ordinazione in pizzeria, non dimenticate mai che dovete tutto a quel nasone toscano (no, non stiamo parlando di Benigni). Una grande innovazione, dunque, alla luce del fatto che la lingua colta al tempo era il latino e, nonostante ciò, scelse il volgare.
Però rendiamo merito anche a un altro grande italiano che ricordiamo soprattutto per la storia di due che volevano sposarsi ma, a quanto pare, la burocrazia in Lombardia è lenta. Alessandro Manzoni, il secondo vate della letteratura italiana, fece un’operazione – partendo da presupposti diversi – simile a quella di Dante: con i suoi Promessi Sposi intendeva aprire la letteratura a un più vasto bacino di lettori, in quello stivale ancora diviso e che in pochi decenni avrebbe conosciuto il Risorgimento. Fece vari esperimenti: ne venne fuori un italiano, sì comprensibile, ma che ancora risentiva di qualche dialettismo di troppo. Nel 1840 decide dunque, con un’espressione passata alla storia, di “sciacquare i panni in Arno”: filtrò la lingua del suo romanzo con quello stesso fiorentino. Una scelta che, infatti, si rivelerà non poco di successo.
Una delle vicende che spesso e volentieri si sente sul conto di Dante è quella del suo amore per Beatrice. La conobbe a soli nove anni – lo sappiamo dalla Vita Nova – dopodiché, quasi sicuramente, non si incontrarono mai più. Lui ci parla dell’episodio del saluto negato, difficile credergli. Successivamente Dante si sposò e Beatrice, giovane, morì. Ma se vogliamo prestar fede a quell’episodio, Dante è a tutti gli effetti il primo friendzonato della storia: non solo viene rifiutato ma non ha neanche il coraggio di dichiararsi. Non si tratta però di un amore silente: aldilà delle poesie d’amore della Vita Nova e aldilà di ciò che rappresenta per molti altri aspetti la sua opera più importante, la Commedia non esisterebbe se quell’amore nascosto non vi fosse stato e se la giovane Beatrice non si fosse spenta prematuramente.
Dante scrive la Commedia per lei. Dante immagina un viaggio dall’Inferno, attraverso il Purgatorio, fino al Paradiso per poi ricongiungersi con la donna con cui non scambiò nemmeno una parola. Una figura femminile tra pudore e carnalità, incarnazione filosofica e teologica della salvezza. Una figura che, esistita o meno, si è rivelata per Dante il punto di passaggio tra l’amore giovanile e la vera conoscenza del mondo.
Se vi sforzate a riportare alla mente la vostra esperienza scolastica legata a Dante, vi ricorderete senza dubbio come il poeta nel corso della Commedia svenga spesso o perché impaurito o perché estasiato. Alcuni studiosi sono arrivati a pensare che questi svenimenti non siano altro che un racconto indiretto di una possibile malattia – una forma di narcolessia o epilessia – di cui Dante soffrì verso la fine della sua vita.
Questa però rischia di diventare una valutazione riduttiva, banalizzante, e che soprattutto non rende merito al grande genio di Dante. È invece più interessante – e su questo concordano molti intellettuali – pensare a una furbizia stilistica: data la mole e complessità della materia alla base della Commedia, non risulta difficile credere che l’arguto fiorentino sia ricorso all’espediente del mancamento per fare un salto narrativo e risolvere una situazione altrimenti senza via di fuga.
Per il Dantedì, oggi 25 marzo, prendete un passo di Dante e provate a farvi un’idea. Dimenticate l’esperienza scolastica legata al Poeta, spesso esasperante e troppo didattica per l’appunto, ed esploratelo. Affrontate la sua opera in quanto esseri umani, esaltatela o abbattetela, ma fatevi un vostro giudizio come colui che si prese la briga di decidere chi dovesse andare all’Inferno e chi in Paradiso.
Riccardo Bajardi
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