È un altro giorno e con esso comincia una nuova avventura: un clima mite rinfresca le palpebre chiuse e i capelli, i raggi del sole primaverile tagliano il viso ancora in dormiveglia che nasconde l’eccitazione per il nuovo viaggio che sarà intrapreso. «I don’t know… just where I’m going…». Nella morsa della mano destra c’è un biglietto per il viaggio in treno: un comodo vagone senza tettuccio aspetta il suo prodiero turista. È un piccolo treno senza binari, né rotaie che serpeggia tra le nuvole senza far rumore e dona ubriachezza, per l’alta pressione raggiunta. Il viaggio tranquillo è interrotto soltanto da piccole risate leggere.
«’Cause it makes me feel like I’m a man, when I put a spike into my vein…». Prende forma una febbrile eccitazione che stordisce e al tempo stesso diverte, è tutto un accumularsi di energia positiva che racchiude gioia, felicità, desiderio di vivere e lo scatenato impulso di una corsa senza freni raggiunta per mezzo del treno che recupera rotaie e binari e precipita in una ripida discesa diretta al centro della Terra.
«And I feel just like Jesus’ son, and I guess that I just don’t know…» Ogni parte del corpo si disgrega e solo l’anima resta ancorata al vagone che continua a viaggiare, a velocità intermittente, causando ora euforia, ora calma in una scalata verso il culmine dell’irrazionalità, tra sentimenti e illusioni bipolari.
«I’m gonna try to nullify my life, ’cause when the blood begins to flow, when it shoots up the dropper’s neck, when I’m closing in on death…». Non c’è più il sole primaverile incontrato all’inizio del viaggio. Affiorano, invece, le tenebre di cui non si conosce l’origine, ma se ne può percepire l’ascesa mentre salgono come rampicanti dal fondo più remoto, pronte ad incollarsi su tutto ciò che esiste. Stringono il corpo del viaggiatore fino a soffocarlo e poco prima dell’ultimo respiro lo rilasciano, ma solo per dargli l’illusione che il viaggio è finito, perché lo stringeranno ancora più forte quando si sarà calmato.
«Heroin, be the death of me, Heroin, it’s my wife and it’s my life…». Il treno ha perso aderenza e si è fiondato sul cuore delle tenebre esplodendo e generando un bombardamento acustico fatto di rumori graffianti e insopportabili, è una dimensione infernale scandita da unghie che graffiano pareti lisce e per le povere orecchie sofferenti non c’è scampo. L’attesa interminabile della fine sembra non arrivare mai, ma anche oggi ci sarà una pausa per questo viaggio verso l’autodistruzione. «…and I guess that I just don’t know».
Soltanto un genio come Lou Reed, dalle inesplicabili e ambigue capacità artistiche, avrebbe potuto riprodurre, attraverso il suono, l’effetto provocato dall’eroina. Cantautore, musicista e poeta newyorkese: si tratta di una delle più influenti figure del panorama musicale degli anni ’60-’80, caposaldo del rock’n roll e cellula zigote del punk. Un semplice e sintetico articolo non spera certo di definire l’eclettica personalità del suddetto artista, che meriterebbe libri e documentari. Nel proposito, infatti, si vuole soltanto porre l’attenzione sulla canzone in questione, Heroin, che esce nel 1969 all’interno del primo album ufficiale dei Velvet Underground (gruppo cui prenderà parte nel periodo 1964-1973), nella cui copertina compare la famosissima banana fallica stile pop art di Andy Warhol.
Heroin è un’opera d’arte sia dal punto di vista testuale che da quello musicale. Il testo è semplice, diretto, non ha paura di definire le cose col loro nome concreto e pesa le parole: una in più non sarebbe servita, tutto è racchiuso in una narrazione ai confini dell’elementare e per questo estremamente evocativa. Nelle sue interviste, Lou parla della metafora di un treno in corsa, un’immagine comune a tutti che avrebbe permesso, anche a chi non ha mai provato l’eroina, di comprendere i suoi effetti. La canzone è un crescendo di sensazioni capaci di esprimere il passaggio dalla serenità alla distruzione fino al picco degli istinti suicidi. Negli ultimi minuti affiorano gli aspetti più dolorosi legati alla dipendenza da droghe, ma Reed è anche in grado di rendere il lato più afrodisiaco dell’eroina, i pochi momenti di pace e apoteosi che anticipano il delirio esistenziale.
Reed ama il rumore e spesso racconta di una bestia racchiusa in lui che cerca di uscire e in questa canzone l’esaltazione del rumore puro e assordante è svolta in un climax ascendente, per mezzo di una stridente musica elettronica in un genere che va oltre il rock e rientra, semplicemente, nel genere “Lou Reed”.
L’artista visse ai limiti della decenza sferrando comportamenti talvolta sfrenati e il suo intento è proprio quello di partire dalla sua esperienza autobiografica per approdare a una definizione stereotipata, mai estremamente soggettiva seppur narrata in prima persona, cosicchè tutti potessero immedesimarsi.
Reed era un’artista all’avanguardia perché riuscì ad affrontare con una sincerità lancinante tematiche, come quella dell’eroina in questo caso, all’epoca considerate tabù e degne di censura. Il suo più grande merito è quello di aver considerato la musica rock come una forma d’arte e per questo meritevole delle stesse attenzioni e approfondimenti solitamente riservati ai libri o ai quadri. Tutte le pulsazioni sono curate realisticamente, la parte finale diventa insopportabile all’udito e perfettamente adatta alla rappresentazione della dipendenza e del dolore.
Lou Reed morì il 27 ottobre 2013 per complicazioni legate al trapianto di fegato che aveva subito.
«Non ho mai avuto giovani che strillavano ai miei concerti. I ragazzi strillano per David [Bowie], non per me. A me tirano siringhe sul palco».
Giulia Sorrentino
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