La Compagnia Zappalà danza, fondata nel 1989 dal ballerino e coreografo catanese Roberto Zappalà, è una delle realtà artistiche più vive e particolari presenti non solo nella città di Catania, ma anche nell’intero territorio italiano. Abbiamo avuto il piacere di intervistare il suo fondatore e di farci spiegare qualcosa riguardo il linguaggio unico utilizzato dalla compagnia.
Da cosa è partito il progetto Compagnia Zappalà e quando è subentrato il connubio con Scenario Pubblico?
«Sono passati ben ventisette anni dalla fondazione della compagnia, la quale inizialmente si chiamava Balletto di Sicilia. È nata da una mia esigenza di rottura col passato da danzatore e dalla voglia di creare qualcosa di mio. Concettualmente, il nome dato in seguito di Compagnia Zappalà è legato al fatto che si tratta di una compagnia d’autore, in cui la maggioranza dei lavori sono realizzati da me e dunque si è scelto di darle il mio nome. Il connubio con Scenario Pubblico, la nostra residenza attuale, è nato dall’esigenza di trovare una “casa” per la compagnia in cui poter lavorare; così abbiamo deciso di sfruttare quest’opportunità e di stabilirci in questo meraviglioso posto, in cui oggi riusciamo ad ospitare anche altre compagnie e a realizzare numerosi progetti anche per i neofiti della danza. Da tre anni siamo, inoltre, diventati Centro nazionale di produzione della danza; ne esistono solo tre in Italia e da Firenze in giù ci siamo solo noi. Il percorso di crescita della compagnia è stato lento, dovuto a una lunga gavetta, ma siamo riusciti in questi ventisette anni a realizzare ben cinquanta produzioni, con una media di due all’anno».
Come si pone il vostro linguaggio, definito MoDem (Movimento Democratico), rispetto alla tradizione della danza classica?
«MoDem è un linguaggio a sé che non fa nessun riferimento alla danza classica, anzi in un certo senso la scardina, la distrugge. Il lavoro che noi facciamo è imperniato sulla conoscenza delle giunture, delle parti del corpo ed è un processo molto difficile da spiegare sinteticamente a parole; risulta molto più facile vederlo. Quello che vorremmo trasmettere è la forza che nasce dal contatto con la terra che specialmente per noi catanesi risulta più forte grazie anche alla presenza dell’Etna, presenza per me erotica e non intimidatoria, ed è proprio questa forza che cerchiamo di comunicare tramite il corpo. Esistono, inoltre, vari moduli di MoDem, tra cui ad esempio il MoDem amatori, creato proprio per i nostri spettatori, per renderli partecipi, in modo molto semplificato, di ciò a cui assistono sul palcoscenico; un’esperienza del genere, aperta anche ai settantenni, non sarebbe possibile con un linguaggio impostato come quello del balletto classico. Il lavoro minuzioso sul nostro linguaggio dura da dieci anni e quello a cui tendiamo è proprio di renderlo ben individuabile e identificabile».
Esiste un libro scritto dal direttore d’orchestra Daniel Barenboim, chiamato “La musica sveglia il tempo”, in cui si esprime il concetto di arte, in questo caso la musica come motore per muovere la realtà. Dal suo punto di vista di coreografo e ballerino, come vede questo concetto? L’arte sveglia il tempo?
«Penso che Barenboim, pur avendo usato l’espressione “svegliare il tempo”, volesse intendere in realtà “svegliare la gente”. È un po’ un luogo comune dire questo genere di cose per chi fa arte, ma bisogna riportare la gente ad osservare la bellezza che non si trova per forza nelle cose belle solo all’apparenza estetica. Il punto sta, invece, nel cercare di creare la bellezza anche nel pensiero; dal mio punto di vista bisognerebbe cercare attraverso l’arte, nel mio caso attraverso la danza, di emancipare il pubblico, il quale decide ormai in maniera pigra prendendo per buono tutto ciò che gli viene imboccato. L’emancipazione sta proprio nell’iniziare a essere curiosi e a capire che potrebbero esistere cose che potrebbero interessarci di più. L’arte deve servire proprio a questo, ad emancipare la società».
Come vive la compagnia il rapporto con la città di Catania? Ad esempio, se questa si trovasse in un’altra città, sarebbe diverso il suo modo di comunicare col pubblico?
«Ho scelto di stare nella città di Catania proprio perché mi interessava impostare il mio lavoro in un luogo acerbo per quanto riguarda la danza. Credo che se fossi nato artisticamente in un altro luogo, probabilmente non avrei avuto questo linguaggio, in quanto il modo che ho di relazionarmi coi danzatori è inevitabilmente influenzato da delle emozioni che io percepisco, paradossalmente, anche nell’inciviltà della mia città ed è anche in questo che io trovo la mia chiave di letture nel linguaggio dei corpi. Se fossi vissuto in un altro luogo, sarei stato diverso perché inevitabilmente il territorio coinvolge il coreografo, soprattutto un coreografo che ha girato il mondo e poi è tornato. Con tutte le sue deficienze, Catania ha avuto per me un ruolo positivo e determinante nella formazione del mio linguaggio artistico».
Nell’ultimo spettacolo rappresentato a Catania quest’anno, “I am beautiful”, è chiara la volontà di far parlare l’anima attraverso il corpo che diviene protagonista assoluto. Quanto conta secondo lei la riscoperta del corpo quale comunicatore e tempio assoluto dell’anima all’interno della nostra società?
«Una riscoperta vera, onesta del corpo, secondo me è oggi importantissima nella nostra società ed è anche per questo che proponiamo lezioni gratuite per gli amatori e per gli immigrati. Ritrovare la naturalezza del mettere a disposizione il corpo della propria anima e viceversa, è una cosa che la gente sente di dover fare, specie in un’epoca come la nostra in cui tutto è virtuale. Bisogna tenere presente che si vive in un mondo fatto di corpi e riscoprire anche la voglia di condividere il proprio corpo con gli altri, nell’accezione più nobile».
Cosa l’ha spinto nell’ultimo progetto “Antologia”, a scegliere di rivisitare le sue vecchie creazioni?
«Mi sono un po’ pentito di aver scelto questo nome, in quanto il termine antologia può far pensare a una semplice ripresa. In realtà, l’obbiettivo principale di questo progetto è quello di studiare i meccanismi di creazione iniziali e capire dopo tanto tempo dalla loro nascita, da cosa sono venuti fuori e cosa sta adesso succedendo nella mia anima. È un progetto molto personale e mi serve per leggere il mio futuro di coreografo e capire dove potrò andare. Alcuni degli spettacoli ripresi, come Romeo e Giulietta, sono stati cambiati in molte cose rispetto al passato, ma non è detto comunque che debba essere così per tutti gli spettacoli rivisitati. Il punto è cercare di leggere il futuro osservando con attenzione diversa il passato».
Quali sono i prossimi progetti della Compagnia?
«Oltre al progetto Antologia, ci sono altri progetti di cui alcuni riguardano dei lavori di allargamento del progetto Transiti Humanitatis, di cui faceva parte I am beautiful. Inoltre, faremo un lavoro anche sul tema di Caino e Abele, il quale si concentrerà sulla riflessione sulla domanda “Qualora non ci fosse stato il primo omicidio, la società come sarebbe stata? Ci sarebbe stato tutto quest’odio e questa cattiveria?”. Questo è il tema principale e si svilupperà in due tappe: la prima di presentazione nel 2017 e la seconda nel 2018. Abbiamo, inoltre, dei progetti di tournée importanti, tra cui uno in Cina, dove andremo a rappresentare qualche spettacolo».
Lorena Peci
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