PAVANA (PT) – Partendo da Pistoia, ridente cittadina toscana, si giunge tramite una corriera che percorre tutto l’Appennino tosco-emiliano fino a Pavana (fraz. di Sambuca Pistoiese), un paesino disperso tra le montagne a 491 metri sul livello del mare, con poco più di 380 abitanti. Un’anziana del posto narra di come, da giovani, fosse consuetudine riunirsi nelle osterie per bere vino e ascoltare un giovane che cantava canzoni anarchiche, accompagnandole con la chitarra: «Era Francesco Guccini che, però, ancora, non era Francesco Guccini». L’inverno, qui, è giunto con largo anticipo: sulla strada che la precede, il fiume in alcune zone è ghiacciato e la temperatura rasenta lo zero, nonostante la giornata sia ampiamente soleggiata.
Il paese ha la macelleria, l’ormai anacronistico bar sport e anche le poste, ma soprattutto ha una casa che racchiude in sé più storia di quanto si possa immaginare: è la casa di Francesco Guccini, cantante e musicista modenese. Detto il Maestrone, «cresciuto tra i saggi ignoranti di montagna, che sapevano Dante a memoria e improvvisavano di poesia» (Addio, Stagioni), adesso, una volta ritiratosi dalla scena musicale, vive in quel luogo che nella canzone Amerigo definisce un ricordo «lasciato tra i castagni dell’Appennino». Dopo due colpi ben assestati al battacchio di casa sua e due parole scambiate con la moglie, si presenta alla porta un uomo alto, con la barba curata e grigia. Inizia, quindi, nella sua cucina decorata da libri, giornali e pregiate bottiglie di vino, l’intervista all’autore di brani come Eskimo, via Paolo Fabbri 43 e molti altri pezzi che hanno segnato un’epoca della musica italiana: Francesco Guccini, icona del cantautorato peninsulare, al pari di Fabrizio De Andrè.
Maestro, partiamo dalla conclusione di un percorso per una volta: il suo album di chiusura è L’ultima Thule, con esso chiude non solo la sua discografia, bensì la tetralogia delle canzoni di notte. Perché ha scelto proprio la figura della Thule? Inoltre, perché, dopo essersi ritirato dalla scena musicale ha scelto di vivere a Pavana?
«La “Thule” è la figura del mio ultimo album perché simboleggia un po’ il viaggio verso la fine, la conclusione di una carriera, o meglio dire (tira una boccata di fumo, sorseggiando succo d’arancia) percorso. A Pavana ci son tornato: non ci sono nato, ma ogni estate salivo qui in montagna. Non salii soltanto una volta: in occasione del primo anno di militare che feci in provincia di Lecce. In merito, ti dirò, son d’accordo sull’abolizione dell’obbligo del servizio militate: era davvero una sciagura».
Addentriamoci adesso nella musica. La sua canzone più enigmatica è Shomer Ma Mi Llailah, come nasce questo pezzo?
«La canzone si riconduce a un brano del profeta Isaia: “shomer” vuol dire sentinella, “ma mi llailah” quanto della notte. Il pezzo parla di un viandante che chiede a che punto della notte si è giunti e la guardia, sentenziosa, risponde: “La notte sta per finire, ma il giorno ancora non è arrivato”. Poi, però, prosegue: “Tornate, chiedete, domandate”. Tutto ciò non è altro che la rappresentazione di come l’uomo debba continuare a farsi domande, anche se alla fine non riesce a trovare e non troverà mai tutte le risposte».
Passiamo, ora, a Radici. Lei parla de «la casa sul confine della sera» o ancora «la casa come punto di memoria».
«In “Radici”, in primis, parlo della casa dei miei nonni. Anche questa (la casa dove vive attualmente e in cui si è tenuta l’intervista) era dei miei nonni, ma non erano gli stessi di Radici. In quella casa c’era il mulino sul fiume, lo stesso mulino di Canzone di notte n. 4: lì lo chiamo “battola”. In realtà dovevo capire da dove ricominciare e, invece di risorgere dalle ceneri come l’araba fenice, son risorto dalle radici. Nella copertina dell’omonimo album, infatti, ci sono i miei bisnonni, oltre al mio pro zio Enrico, a cui dedicai Amerigo e dove nomino Pavana. Proprio le voci che aprono “Canzone di notte n. 4” sono in dialetto pavanese, sono i miei avi a parlare».
Nella sua musica sono citati più volte fatti storici realmente accaduti, oltre che tanti personaggi ideati da grandissimi autori del passato. Quanto è importante tutto ciò nella sua musica?
«La storia, sì, certamente è importante, ma fino a un certo punto. Ad esempio “Odysseus” (pronunciato alla greca) è il simbolo del viaggiatore che scopre il mondo e poi vuole tornare, come i marinai, come i montanari dell’Appenino che devono immigrare e poi vogliono tornare. E ancora ci sono pure “Cyrano” e “Signora Bovary”, non come nel libro di Flaubert che, a proposito, ho finito da poco di rileggere».
Giungiamo al piatto forte: L’Avvelenata. Chi era “Bertoncelli?”
«”L’Avvelenata” (sorride) è una canzoncina, non so tutt’ora perché ebbe così tanto successo. Il Bertoncelli che nomino all’interno del testo è un giornalista che conosco e con cui, tuttora, sono amico. Quando uscì il disco (via Paolo Fabbri 43) non apportò una critica a esso, e sia chiaro che io accetto sempre le critiche, ma disse che realizzai quel disco esclusivamente per ragioni legate alla casa discografica: la cosa non era affatto vera. Non volevo neppure mettere “L’Avvelenata” in quel disco, ma alla fine mi convinsero a farlo».
Un’altra sua canzone simbolo, su cui persino Gaber si pronunciò dicendo «Bolognesi! Ricordatevi: Sting è molto bravo, però tenetevi il vostro Guccini. Uno che è riuscito a scrivere 13 strofe su una locomotiva, può scrivere davvero di tutto», è La Locomotiva.
«”La Locomotiva” parla di un fatto realmente accaduto. Il ferroviere di cui canto le gesta si chiamava Pietro Rigosi e lessi della sua storia in un libro scritto da un operaio bolognese, se non sbaglio il titolo era: “20 anni di officina”. Seppi pure che egli era un anarchico, ma ciò lo appresi dal mio vicino, ora defunto, a cui dedicai “Il Pensionato”. Ai tempi si cantavano canzoni anarchiche: cantavamo Pietro Gori, autore di “Addio Lugano Bella”».
Nel suo repertorio c’è una canzone che predilige più delle altre?
«Un tempo dicevo che la mia canzone preferita era quella che dovevo ancora scrivere. Ora che ho smesso dico che ho una cerchia di canzoni che reputo venute particolarmente bene».
Dulcis in fundo, il Guccini non musicista, ma scrittore di libri. Parliamo dei suoi dizionari delle cose perdute.
«Il “Dizionario delle Cose Perdute” parla di un passato recente, parla di un’epoca dove il telefono era una conquista: io lo avevo, verde, ed era collocato presso l’entrata di casa. E ancora vi era il telefono a gettoni, poi sostituito dalla scheda. Nei piccoli paesi come Pavana si chiamava da un luogo pubblico adibito a tale funzione. Oggi è stato tutto soppiantanto dalla tecnologia, eppure si parla di un passato che sembra soltanto lontano, ma che in realtà è vicinissimo».
Francesco Raguni
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