Nelle sale dal 27 aprile, Beau ha paura di Ari Aster ci catapulta nella vita di un uomo alle prese con la propria vita. Una vita di paure dove inconscio e realtà si confondono: un viaggio alla scoperta di un rapporto lacerato e nato male sin dal principio. Il regista confeziona così una commedia horror in cui il riso è fisico, l’orrore è costante e in cui i significati si sommano e fondono.
Protagonista della vicenda, Beau è interpretato da Joaquin Phoenix. Inutile precisare che l’attore ha reso magistralmente questo personaggio e se n’è preso carico senza vacillare nemmeno per un istante. Una performance unica e originale, come la pellicola, e difficile come la visione.
Altri visi conosciuti sono quelli di Amy Ryan (la ricorderete per il ruolo di Holly nella fortunata serie The Office USA) e il famoso Nathan Lane.
Una sinossi del film esiste ma risulterebbe poco esplicativa e inutilmente faticosa da delineare. Vi basti sapere che ha inizio con una normale seduta psicanalitica e che si conclude con un processo. Ciò che è vero o meno, non serve saperlo, perché Beau diventa il nostro punto di vista e tutto ci risulterà così assurdo da dimenticare se credere a qualcosa o meno.
È come se Collodi si fosse risvegliato dalla tomba, avesse strappato il manoscritto de Le Avventure di Pinocchio e, dopo dieci fiaschi di vino toscano, si sia messo a riscrivere l’intero romanzo: decide, dunque, di caricare il suo burattino di traumi e condurlo non verso il diventare un bambino vero, bensì da essere umano a marionetta di un destino infausto.
Geppetto è madre e fata turchina contemporaneamente, il gatto e la volpe ingannano e aiutano in maniera disordinata, Lucignolo è la prima volta mancata. Tutto questo su piani narrativi che si sovrappongono e il cui unico legante sono le fauci della balena che inghiotte Beau e lo porta sempre più a fondo.
Se si guarda alla filmografia di Aster, quindi alle pellicole Hereditary e Midsommar, andando in sala ci si aspetta di affrontare una vicenda disturbata e disturbante perfettamente allineata con la tendenza del regista. Con Beau ha paura questo non accade.
A pochi minuti dall’inizio ci rendiamo ben presto conto che quello che stiamo per guardare è la perfetta antitesi della linearità. Ci troviamo di fronte a una storia che conosce il principio A e il risultato finale B, in mezzo però troviamo quanto di più caotico possa esistere. Quando qualcosa o qualcuno sembra suggerirci un possibile filo, ecco che subito si smentisce e tutto sembra come resettarsi. Una nuova agonia, infarcita di comicità fisica al limite col gore, ci viene ripresentata e ci ributterà inevitabilmente nella confusione.
Ogni singolo elemento è enfatizzato, perché Beau ha paura ma non sappiamo fino a che punto ciò che vediamo sia così nell’effettivo o solo frutto della sua mente turbata. Beau fugge sempre, come se il mondo che lo circonda l’avesse messo al mondo solo per il semplice gusto di braccarlo o forse è tutto solo a metà, solo così in parte.
In sala nelle prime file c’era un gruppo di signori anziani, tra cui una signora in particolare, che finito il film, uscendo dalla sala ha esclamato: “Questo è un insulto a Freud e a tutta la psicanalisi!”. Tralasciando come la psicanalisi abbia da tempo abbandonato la visione freudiana della psiche umana, seppur ne rappresenti ancora la base, ma perché mia cara signora è rimasta in sala fino alla fine per 179 minuti?
Le piace forse l’agonia o, inconsciamente, ha capito che c’era qualcosa da guardare? Non fate il suo stesso errore e date una possibilità a Ari Aster con Beau ha paura.
Riccardo Bajardi
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