Raccontare una storia, trasmettere un’emozione, lasciare una traccia sul cuore del lettore: quante cose si celano dietro la pubblicazione di un romanzo. Oggi, vogliamo compiere questo meraviglioso viaggio nel mondo delle parole insieme a Patrizia Pieri, autrice esordiente del romanzo “Mi chiamo Yuri”.
Un titolo che incuriosisce e invoglia alla lettura. La scena si apre sul salotto di un appartamento del quartiere Monteverde a Roma: Yuri e Valentina sono due bambini, si conoscono, si piacciono, giocano insieme. Nasce un’amicizia pulita e sincera. Dieci anni dopo Yuri non c’è più. Valentina lo scopre per caso, gli equilibri si rompono e una finestra si spalanca su un passato da chiarire e risolvere.
Le vicende procedono scorrevoli, commoventi e perfino avvincenti. Attraversiamo le vite dei protagonisti appesi al filo dell’emozione perché, al di là della trama, tutti possiamo riconoscerci in quel magico contenitore di vita che è il romanzo. Amicizia, mistero, ricordi, dolore, nostalgia, morte… e soprattutto amore.
Quell’amore con cui una madre che ha vissuto il lutto più inconsolabile riesce ancora a guardare il mondo e a permeare il lettore di un profondo senso di speranza e gratitudine. La vita, nonostante tutto, è un dono incommensurabile e un raggio di luce riesce sempre a squarciare la notte più buia.
«Scrivere questo romanzo per me è stato come riempire un vuoto. Il vuoto che avevo dopo la morte di mio figlio. Raccontare questa storia mi ha permesso di continuare a far esistere chi non c’è più. Ma c’è dell’altro. Scrivere significa comunicare con il mondo. Cerco di raccontare la vita con una scrittura autentica, senza artifici, attingendo a storie vere, anche personali. Uno sguardo diretto sulla realtà per renderla comprensibile. Italo Calvino diceva che la scrittura è inseguimento perpetuo delle cose, è il dovere di rappresentare la realtà e di farlo con leggerezza».
Patrizia Pieri è anche fotografa professionista. Nel romanzo non mancano “istantanee” di scorci caratteristici della sua città. Le chiediamo quanto la sensibilità alle immagini abbia facilitato la stesura del romanzo.
«Sia in fotografia che in scrittura ho già l’idea di ciò che voglio trasmettere e cerco di darle forma e corpo. L’immagine, come il libro, nasce e poi va per la sua strada. Ovviamente, cerco sempre di rappresentare qualcosa che resti nella memoria di chi lo riceve, lasciargli un segno, dargli un’emozione e spingerlo a una riflessione umana ed empatica sui personaggi».
Il romanzo “Mi chiamo Yuri” testimonia altresì la caparbietà e la perseveranza di chi non perde di vista l’obiettivo della pubblicazione. Troppi scrittori, magari meritevoli, non riescono a emergere e restano talvolta insabbiati sotto dinamiche editoriali complesse e viziate.
«In effetti, per un esordiente è molto difficile pubblicare. Ci sono case editrici che concedono pubblicazioni a pagamento, c’è il self publishing, il crowdfunding… Insomma se ci si vuole affidare a una casa editrice “vera”, si hanno chiaramente poche possibilità, a meno che non si conosca qualcuno “nel giro che conta”. Io non avevo “agganci”, ho spedito il manoscritto a varie case editrici e ho atteso per mesi. Infine, è arrivata la chiamata da una piccola realtà romana e ce l’ho fatta. Purtroppo eravamo in pieno lockdown e non si potevano fare presentazioni. Ci siamo affidati ai social, al passaparola e a brevi incontri estivi in location all’aperto tra il rumore del traffico, le grida giocose dei bambini e la mascherina per paura dei contagi».
Anche in questo caso, ha vinto la vita.
Assunta Saragosa
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