In un momento storico che lascia scorrere fiumi di parole su banchi a rotelle e chiusura delle scuole, l’ultimo romanzo di Alessandro D’Avenia, “L’appello”, invita a focalizzare l’attenzione sullo studente e a riflettere sul suo ruolo di assoluta centralità.
Alessandro D’Avenia, palermitano di nascita, insegna lettere in un liceo di Milano. Nel 2012 esordisce come scrittore con il romanzo “Bianca come il latte, rossa come il sangue” e, negli anni a seguire, inanella un successo editoriale dopo l’altro. Protagonista dei suoi libri è il mondo dei giovani, osservato dalla loro prospettiva e analizzato nella sua complessità di emozioni e problematiche.
“L’Appello”, uscito in libreria lo scorso 3 novembre, si inserisce sulla scia dei precedenti romanzi e propone temi di straordinaria attualità: la scuola, le sue priorità e il rapporto tra insegnanti e studenti.
Il professor Omero Romeo è chiamato ad insegnare in una classe di elementi “difficili”. Durante l’appello, invita i suoi allievi a pronunciare ad alta voce il proprio nome e a raccontare, ogni volta, frammenti di storie personali. Il professore è cieco ma è l’unico che, così facendo, riesce realmente a “vedere” i suoi ragazzi, rendendoli consapevoli della loro identità e strappandoli alla spietata spersonalizzazione della cultura dei social.
La scuola diventa palestra di vita, dove ci si allena per diventare ciò che siamo e non ciò che ci viene imposto di essere. L’esplorazione delle proprie risorse è un percorso tanto stimolante quanto impegnativo perché richiede il coraggio di andare controcorrente. L’affermazione del sé, infatti, non si misura con la quantità di like né con l’acclamazione dei followers, ma sposa il principio, tristemente dimenticato, dell’unicità di ognuno di noi.
“L’essenziale è invisibile agli occhi”, diceva Saint-Exupéry, e l’essenziale nel mondo della scuola è il talento dei ragazzi. Ma per farlo emergere occorrono maestri che facciano dell’insegnamento una missione di vita e che possano agire in un contesto favorevole, fluido, moderno. La pandemia, al contrario, ha messo a nudo un sistema farraginoso e lacunoso, programmi ministeriali obsoleti, cattedre che restano scoperte per settimane, precarietà e confusione. Ciononostante, nelle aule del potere si continua a dibattere su distanziamento e mascherine, misure certamente necessarie per fronteggiare l’emergenza sanitaria, ma secondarie rispetto al problema di fondo.
Chiudere la scuola e adottare la didattica a distanza, quale panacea per tutti i mali, comporta dilapidare ingenti quantità di risorse umane. Oltre alle difficoltà pratiche in cui si sono trovate migliaia di famiglie, il termine stesso è un inno al controsenso. Insegnare implica vicinanza e confronto, significa valorizzare le fragilità e trasformare la diversità in ricchezza. Una scuola veramente inclusiva è una scuola che va oltre la nozione di un’equazione matematica, perché il vero obiettivo non è l’esame di Stato ma la realizzazione personale di ogni giovane individuo.
Una scuola che partorisce giovani consapevoli consegnerà alla società uomini migliori. E allora, chiudiamo gli occhi per provare a vedere l’essenziale oppure saliamo sui banchi, come l’indimenticabile professor Keating de “L’attimo fuggente”, per imparare guardare le cose da una prospettiva diversa.
“O Capitano, mio Capitano”…
Assunta Saragosa
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