Eh sì, la quarantena ci ha costretti a cambiare moltissime delle nostre abitudini, spingendoci a riorganizzare la nostra vita da ogni punto di vista. Non a caso, inizialmente è stato un trauma dover rivedere i propri impegni e inserirli all’interno di un contesto prevalentemente casalingo; come, per l’appunto, il lavoro. Lo smart working è stato il migliore/peggiore nemico di tutti noi, poiché i consumi delle utenze domestiche son aumentate, ma esso ci ha permesso di lavorare direttamente da casa, in pigiama, potendocisi concedere alcuni “lussi”.
Adesso che la situazione sta, anche se lentamente, migliorando, come si fa ad alzarsi al mattino, vestirsi, mettercisi in macchina e compiere, possibilmente, decine di chilometri per raggiungere l’ufficio? Perché la quarantena, al contrario di quando è cominciata, ci ha lasciati uno stato di pigrizia assoluta attraverso cui ci rifiutiamo di uscire e fare qualsivoglia cosa facessimo prima; e con i datori di lavoro i quali, all’attuale, stanno richiamando all’ordine i loro impiegati, noi, lo stesso, non vogliamo uscire dalle mura del nostro pseudo ufficio.
Proprio per questo – come riportato da GQItalia –, in molti si chiedono: ma se si volesse continuare a lavorare da casa, come fare a convincere il capo? Domanda, in effetti, da un milione di dollari, giacché essi pensano che la mancanza di personale in sede diminuisce notevolmente la produzione tipica del periodo pre-quarantena. Eppure, in tal senso, si è verificato che non è così, perché lavorare da casa ha consentito, e consente, di gestire, e/o anticipare, la tempistica di inizio turno al mattino o al pomeriggio, risparmiare sui costi di trasporto (e di cibo, eccetera), offrendo, altresì, la possibilità di ridurre drasticamente i tipici tempi morti lavorativi aziendali.
E se davvero, “tutto il male non vien per nuocere” – seppur, lo smart working, elemento creatore di meno coesione fra gli operai –, qualora volessimo perseverare nell’esercizio da casa, come indurre il leader a lasciarcelo fare per sempre? Di seguito, le modalità che, più o meno ovvie, potrebbero – se adeguatamente certo del lavoro svolto e di quello che si è dentro e fuori dall’ufficio – convincere definitivamente un datore di lavoro.
Molti dirigenti credono fermamente che un personale lavorante da casa, in realtà, produca molto meno rispetto alla normalità; ecco perché ha un fervido bisogno di riaverlo in ufficio. Per convincerlo, quindi, è necessario dimostrare il contrario, facendo in modo di fargli vedere che non cambia assolutamente nulla, anzi, risparmia sul mantenimento del personale e delle utenze a questo utili.
La posta elettronica potrebbe venirci incontro anche in questo caso, aiutandoci a inviare telematicamente la proposta di conversione da lavoratori fisici a lavoratori in modalità smart working. Ponderandola e scrivendola nei minimi particolari, premendo l’acceleratore soprattutto sul fatto di come lo smart working abbia migliorato, di gran lunga, l’operato in questione.
Al contrario di quanto su detto, in verità, sarebbe meglio affrontare la questione parlandone a quattr’occhi col capo. Difatti, all’interno di un’e-mail si dovrebbe inserire l’intero prospetto lavorativo, e stare continuamente al telefono, fra messaggi e telefonate, per spiegare, nello specifico, di cosa si stesse parlando in quel determinato punto. Faccia a faccia, invece, si è più veloci e più chiari, senza (o così dovrebbe essere) problemi di sorta.
Sarebbe l’ideale, come per tutte le cose – concedendo al capo il beneficio del dubbio, quindi –, chiedere un periodo di prova, facendogli capire che, se andasse male, si sarebbe pronti a ritornare sui propri passi. Negando, indirettamente, quanto giurato sopra, ma per il quale, al contrario, si è pronti a “combattere” e a comprovare che, da casa, si è iper-produttivi. D’altronde, una piccola bugia a fin di bene ci sta sempre (ogni tanto).
Anastasia Gambera
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