In questi giorni l’operato del neo presidente d’America Donald Trump ha fatto discutere e non poco. L’ordine esecutivo firmato dal magnate miliardario, infatti, negherà l’accesso per i prossimi 90 giorni ai cittadini di Iran, Iraq, Yemen, Somali, Sudan e Libia, fino a nuovo ordine a quelli siriani e per ben 4 mesi ai vari rifugiati di guerra. Quest’ultimo aspetto della stretta sull’immigrazione made in Trump sospende un programma che dal 1980 a oggi ha permesso l’accoglienza di ben 2,5 milioni di vittime dei conflitti (trovando l’unico stop l’indomani dell’11 settembre 2001, per la durata di 3 mesi), nel segno di una politica sostanzialmente opposta ad alcuni terribili errori commessi decenni e decenni prima nei confronti della popolazione ebrea.
Fine degli anni ’30: il Terzo Reich è in massima espansione per tutto il territorio europeo e la follia nazista di Hitler comincia a trovare campo fertile per la sua esecuzione. In un momento di assoluto terrore sono migliaia i cittadini ebrei che tentano di fuggire dagli orrori del Führer, con l’unico obiettivo di raggiungere il nuovo continente e soprattutto gli Stati Uniti, dove la minaccia del nazismo è lontana migliaia di chilometri. Durante gli anni del conflitto però, la terra a stelle e strisce non accolse a braccia aperte quella moltitudine di rifugiati politici, anzi, chiuse senza alcuna eccezione le porte della salvezza a chi in Europa avrebbe trovato morte certa. L’obiettivo di Franklin Delano Roosvelt, infatti, fu quello di vietare tassativamente l’ingresso di stranieri durante la guerra, per difendere la sicurezza nazionale del proprio paese. Similitudini con i nostri giorni? Davvero molte, innegabili, ma quello che si concretizzò durante la seconda guerra mondiale fu senza dubbio terribile.
Tra i vari richiedenti asilo negli Stati Uniti anche la celebre Anna Frank, giovane tedesca che trovò la morte a soli 15 anni nel campo di concentramento di Bergen Belsen e che durante la gioventù mise nero su bianco le atrocità della guerra grazie all’omonimo diario, oggi diventato testimonianza concreta di quei terribili anni. Nel 1938 e nel 1941 il padre Otto si vide respingere le due richieste d’asilo dagli Stati Uniti, vedendo svanire le ultime speranze di fuga per mano di una politica restrittiva che condannò tante altre anime come la loro.
Nel 1939, infatti, le conseguenze di questi ordini si concretizzarono in un’intera imbarcazione. Stiamo parlando della St. Luis, una nave da crociera che salpò dalla Germania nel maggio del ’39 con ben 900 ebrei a bordo. Dapprima furono le autorità cubane a negare l’ingresso a quel vascello della speranza, poi anche gli Stati Uniti sbatterono le porte in faccia ai vari passeggeri che affrontarono giorni e giorni di traversata nel mare atlantico inutilmente. Secondo i registri e i vari dati raccolti tempo dopo furono 250 gli occupanti di quell’imbarcazione a trovare la morte una volta tornati nel vecchio continente.
Il presagio di una conseguenza talmente drammatica fu ampiamente prevista da un celebre ebreo che ebbe la fortuna di richiedere asilo prima che la minaccia nazista cominciasse a mietere migliaia di vittime: Albert Einstein. Lo scienziato, approdato negli Stati Uniti nei primi anni ’30, in una lettera a cuore aperto chiese all’allora first lady Eleanor Roosvelt di riaprire le barriere al confine, per permettere ai tanti ebrei dei territori conquistati dal Terzo Reich di fuggire e trovare un posto sicuro dove iniziare un’altra vita. Il solo pensiero delle migliaia di vite che avrebbero potuto salvarsi dalle atrocità dei campi di sterminio e delle truppe di Hitler fa letteralmente venire la pelle d’oca, tanto più se si pensa agli errori che continuano ad essere commessi dal recidivo governo statunitense ai giorni nostri, rifiutando migliaia di uomini, donne e bambini che scappano dai territori ormai dilaniati da terra e distruzione. Parafrasando il grande retore Lucio Anneo Seneca «Errare humanum est, perseverare autem diabolicum».
Francesco Mascali
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