Dall’alba dei tempi, l’uomo si interroga su ciò che lo circonda, è affascinato da ciò che non conosce e fa di tutto per possedere un bagaglio di conoscenze e competenze quanto più ampio possibile. Dopo secoli e secondi di scoperte e evoluzioni che hanno cambiato la storia dell’umanità, però, tanti restano i misteri relativamente ai quali la scienza continua a interrogarsi. Del resto, ogni scoperta è sempre contraddistinta da un margine di errore.
Anni e anni di invenzioni, ricerche, esplorazioni e scoperte hanno sì portato a scoperte dall’inestimabile valore storico, ma non abbastanza da poter definire il lavoro concluso. Basti pensare, ad esempio, che conosciamo soltanto il 5% dei fondali marini e che, dunque, più del 65% del nostro pianeta non è stato ancora mappato topograficamente. Situazione diametralmente opposta, invece, sul fronte spaziale.
La scoperta dello spazio, infatti, ha da sempre affascinato l’uomo. Nel Medioevo, si ritiene che gli uomini siano incapaci di cambiare il proprio destino, il quale dipende esclusivamente dalla volontà di Dio, che controlla tutto l’universo e anche i suoi luoghi inaccessibili. Nella visione medievale, questi ultimi sono dominati dal caos e da eventi paranormali e contraddistinti dalla presenza di creature mistiche.
Nel Rinascimento, la figura umana torna a recitare un ruolo di primo piano nell’universo e ciò si ravvisa soprattutto nelle opere d’arte, in cui si ricorre alla tecnica della prospettiva: oggetti e ambienti vengono rappresentati nella loro dimensione spaziale in base al punto di osservazione dell’occhio umano, all’insegna della razionalità. Tra il ‘400 e il ‘500, il sapere viene laicizzato e alla visione trascendentista, teocentrica e universalista (tipica del Medioevo) subentra una visione immanentista, antropocentrica e individualista.
Tra i più grandi intellettuali della storia, è Leonardo Da Vinci uno dei primi a interrogarsi costantemente sullo spazio circostante, comprendendo che la Luna non brilla di luce propria: “La Luna non è luminosa per sé, ma bene è atta a ricevere la natura della luce a similitudine dello specchio e dell’acqua, o altro corpo lucido. Non avendo lume proprio, riceve da altri la luce.”
Tra il 1609 e il 1610, lo scienziato Galileo Galilei inventa il cannocchiale, grazie al quale scopre i quattro maggiori satelliti di Giove, la natura rocciosa e irregolare del suolo lunare, le fasi di Venere e le macchie solari. Sul finire del ‘700, Isaac Newton opera una distinzione tra spazio assoluto e spazio relativo da un lato e tempo assoluto e tempo relativo dall’altro. Lo spazio e il tempo assoluto esistono, ma soltanto quelli relativi sono percepibili.
Anni e anni di studi e approfondimenti su quello spazio misterioso – che nel Medioevo veniva visto come una sorta di realtà oscura e pericolosa e che dall’Umanesimo in poi ha cominciato ad affascinare sempre più concretamente l’uomo – hanno portato, in piena Seconda Guerra Mondiale, a una vera e propria “corsa allo spazio”: la Germania nazista di Adolf Hitler da una parte, gli Stati Uniti del presidente Franklin Roosevelt e l’Unione Sovietica di Josif Stalin dall’altra.
Queste ultime due potenze, però, entrano ben presto in contrasto e la sopracitata corsa allo spazio prende il via con l’avvento della Guerra Fredda. Nel 1957 (Anno Geofisico Internazionale), entrambi i paesi comunicano la propria intenzione di lanciare un satellite orbitale. Ad avere la meglio, contro ogni previsione, è l’URSS, che nell’ottobre dello stesso anno lancia in orbita il satellite Sputnik. La risposta degli USA arriva circa tre mesi dopo, col lancio del satellite Explorer I nel gennaio 1958.
Nel medesimo anno, con lo Space Act, nasce la North American Space Agency (NASA) e la sfida è incentrata nell’inviare un essere umano nello spazio per la prima volta. Anche in questo caso, l’Unione Sovietica si impone sui propri rivali, mandando in orbita Yuri Gagarin il 12 aprile 1961 (l’americano Alan Shepard vi riesce meno di un mese dopo, il 5 maggio, ma per gli USA il secondo posto è una sconfitta difficile da accettare, peraltro la seconda consecutiva nel giro di pochi anni).
Sempre nel maggio del 1961, l’allora presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy fa un annuncio destinato a cambiare per sempre la storia dell’umanità. “Credo che questa nazione dovrebbe impegnarsi a raggiungere l’obiettivo di far atterrare un uomo sulla Luna e riportarlo sulla Terra prima della fine di questo decennio.”: nelle sue parole è racchiusa tutta la voglia di riscatto di una potenza orgogliosa e pronta a riscattare il doppio ko insaccato al cospetto dei sovietici.
Il 16 luglio 1969, da Cape Kennedy parte la missione “Apollo 11”, con Neil Armstrong e Edwin “Buzz” Aldrin che il 20 luglio restano ben 21 ore e 36 minuti sulla superficie della Luna, mentre il pilota del modulo di comando – Michael Collins – orbita sopra di loro, a meno di 100 chilometri dalla superficie lunare (circa 97 km). “One small step for a man, one giant leap for mankind.”, ossia “Un piccolo passo per l’uomo, ma un grande passo per l’umanità.”, le parole successivamente pronunciate da Neil Armstrong.
La missione “Apollo 11” giunge a termine anche e soprattutto grazie a un italiano: in questa fantastica spedizione di successo un ruolo fondamentale ce l’ha Rocco Petrone, un ingegnere statunitense figlio di due emigranti originari della Basilicata. “Nessuno potrà mai dire abbastanza bene di Rocco Petrone. Non saremmo mai arrivati sulla Luna in tempo o, forse, non ci saremmo mai arrivati senza Rocco.”, dirà di lui Ike Rigell, ingegnere capo del Kennedy Space Center. A Rocco Petrone, History Channel ha dedicato il documentario “Luna italiana – Rocco Petrone e il viaggio dell’Apollo 11”.
Dopo mezzo secolo di ulteriori studi, il “piccolo grande passo” menzionato da Armstrong è destinato a evolversi in qualcosa di più grande: la NASA, infatti, ha in programma una missione, “Artemis”, che nel 2024 riporterà l’uomo (e anche una donna, la svedese-americana Jessica Ulrika Meir) sulla Luna per verificare la fattibilità di un futuro approdo su Marte. Cinquant’anni fa il grande balzo per l’umanità, che ora non vuole saperne di fermarsi.
Dennis Izzo
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Coordinatore editoriale di Voci di Città, nasce a Napoli nel 1998. Nel 2016 consegue il diploma scientifico e in seguito si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza presso l’Università Federico II di Napoli. Tra le sue tanti passioni figurano la lettura, i viaggi, la politica e la scrittura, ma soprattutto lo sport: prima il calcio, di cui si innamorò definitivamente in occasione della vittoria dell’Italia ai Mondiali 2006 in Germania, poi il basket NBA, che lo tiene puntualmente sveglio quasi tutte le notti da ottobre a giugno. Grazie a VdC ha la possibilità di far coesistere tutte queste passioni in un’unica attività.
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