«Noo!, che ho fatto? Niente di speciale, solamente il mio lavoro. Ero l’uomo giusto al posto giusto al momento giusto» dichiarava Stanislav Petrov in un’intervista del Corriere della Sera di un anno fa, nella modesta realtà di Fryasino, città nella periferia di Mosca. Un uomo sempre vissuto nell’ombra, senza riconoscimenti, cresciuto in uno dei tipici palazzi in cemento di epoca kruscioviana funzionali per favorire almeno un modesto alloggio ad ogni famiglia russa, in vero spirito sovietico. Anche la sua morte, avvenuta lo scorso 19 maggio, non ha destato scalpore: da masi nessuno era al corrente del suo stato di salute e la notizia è trapelata ai nostri media solo recentemente quando qualcuno l’ha cercato proprio in merito alla ricorrenza dell’anniversario di quel fatidico 26 settembre 1983.
Fu in quella data storica che il tenente colonnello Petrov, all’epoca poco più che trentenne, decise che i segnali che minacciavano l’arrivo di testate missilistiche termonucleari statunitensi erano errati, nonostante i tecnici giurassero il contrario. Non era vero infatti che gli Stati Uniti avessero deciso di sferrare un attacco militare all’Unione Sovietica e il giovane uomo, rifiutandosi di avvertire il Cremlino, riuscì a salvare il pianeta dall’olocausto militare. Quando un’indagine ebbe chiarito l’episodio, rivelando la presenza di un grave errore di sistema, i superiori di Petrov non lo premiarono. Il colonnello piuttosto ricevette un richiamo per aver violato il protocollo stabilito e la sua storia fu rilegata al dimenticatoio, rimanendo segreta fino al crollo dell’Unione Sovietica. Anche in seguito, però, in Russia non si è mai fatto il nome di Petrov, l’uomo ha si ottenuto qualche riconoscimento all’estero, come il premio del gruppo di volontari R 14 di Milano che gli assegnò inoltre un contributo economico per le sue cure, ma niente in patria.
Erano gli anni della Guerra Fredda, della gerontocrazia al comando, della profondissima crisi. Lo stesso segretario generale del partito Jurij Andropov era permanentemente in ospedale, per problemi di salute che lo condussero alla morte l’anno successivo. In genere i tempi per rispondere ad un attacco nucleare sono strettissimi, i missili nucleari possono impiegare meno di mezz’ora per raggiungere la Russia dagli Stati Uniti. Pochi minuti a disposizione per controllare che i parametri siano giusti, poi deve seguire immediatamente la comunicazione telefonica a Mosca.
Così l’informazione arriva ai vertici, si sveglia il capo supremo (che oggi sarebbe il presidente Putin) a cui spetta l’ultima decisione. Militari, ex agenti del KGB non sono abituati a mettere in discussione le procedure ed infatti Petrov non era un semplice militare addetto alla sorveglianza a distanza dei silos americani con i missili intercontinentali, bensì un analista qualificato. L’uomo non credeva possibile che gli Stati Uniti potessero veramente attaccare «e se pure l’avessero fatto, non avrebbero lanciato solo un grappolo di missili», così si convinse che si trattasse di un’avaria del sistema, negandosi di comunicare ai superiori che fosse in corso un attacco.
In quelle settimane del 1983 la tensione fra Urss e Stati Uniti era altissima. Solo sei mesi prima il presidente Reagan aveva bollato pubblicamente lo stato sovietico come “Impero del male”, e Andropov si diceva convinto della volontà di aggressione da parte degli americani. Ad un qualsiasi possibile attacco si sarebbe risposto con una massiccia rappresaglia: decine di missili sovietici tempestivamente inviati verso gli Stati Uniti. E Washington non avrebbe certo esitato a replicare con il lancio (in questo caso vero) delle sue testate missilistiche. Difficile immaginare le conseguenze di un simile disastro, scongiurato grazie all’opera di un semplice uomo che quella notte, fermo al suo posto di controllo a Serpukhov-15, quando giunse il temuto segnale a luci rosse non ebbe vacillamenti. «Una nostra comunicazione avrebbe dato ai vertici del paese al massimo 12 minuti. Poi sarebbe stato troppo tardi (…) Ero un analista, ero certo che si trattasse di un errore, me lo diceva la mia intuizione» così raccontava Petrov nell’intervista del Corriere.
Così l’uomo si limitò a comunicare che vi era stato un malfunzionamento del sistema «I quindici minuti di attesa furono lunghissimi. E se eravamo noi a sbagliare? Ma nessun missile colpì l’Unione Sovietica». Nel 2016 a 76 anni, Petrov faceva ancora la vita di sempre nel palazzo di Fryasino. Poi la sua salute è peggiorata velocemente, suo figlio Dmitrij lo ha ricoverato più volte in ospedale. Il 19 maggio di quest’anno è venuto a mancare, ma la notizia a causa della riservatezza russa che ha da sempre insabbiato la vita di questo eroe dimenticato, ci è pervenuta solo in questi ultimi giorni.
Diana Avendaño Grassini
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