Nel 2019 il Governo Conte I, composto da Movimento 5 Stelle e Lega, approvava il cosiddetto reddito di cittadinanza, una misura che avrebbe dovuto aiutare sia sul lato economico, sia sul lato occupazionale. L’entusiasmo però ha subito lasciato spazio alle grandi contraddizioni.
Innanzitutto anche chiamarlo reddito di cittadinanza è già un errore. Più che essere una misura universale, è un reddito minimo garantito a chi rispetta determinati requisiti. Insomma, questa misura non è un vero e proprio reddito di base, ma una misura assistenzialistica con degli obblighi a carico del beneficiario.
“Abbiamo abolito la povertà” aveva sostenuto Luigi Di Maio (all’epoca ministro del Lavoro e dello sviluppo economico). Una frase un po’ troppo azzardata, che aveva suscitato perplessità perfino tra i sostenitori del Movimento stesso. Ma come sono andate le cose?
La povertà non è stata abolita, ma su questo nessuno ha mai avuto dubbi. A fine 2020, secondo i dati dell’INPS, i percettori della misura erano circa 3 milioni, mentre i cittadini che vivono in povertà assoluta si attestano tra i 5 e i 6 milioni (ISTAT). Se scendiamo più nel dettaglio, scopriamo che in gran parte i percettori del reddito di cittadinanza vivono nel sud Italia, ma non è una novità. La pandemia ha pesato notevolmente sia sulla povertà, sia sulla fruizione del reddito di cittadinanza, con un aumento del 12%.
E i costi? Una misura del genere ha un costo molto elevato per le casse statali. Mensilmente lo Stato versa circa 600 milioni di euro e, fino ad oggi, sono stati versati 9 miliardi. In media un cittadino riceve poco più di 500 euro al mese.
È stata istituita la figura del “Navigator“, il cui compito è: “supportare gli operatori dei centri per l’impiego nella realizzazione di un percorso che coinvolga i beneficiari del reddito di cittadinanza dalla prima convocazione fino all’accettazione di un’offerta di lavoro congrua.”
Il servizio svolto da questa figura, però, non è mai decollato. I dati a riguardo sono carenti e risalgono al 2019. Tali dati ci dicono che i navigator hanno dato supporto ad oltre 400.000 percettori. I numeri forniti circa i rapporti di lavoro avviati, però, sono assai bassi: 22.000 rapporti avviati dal gennaio 2020.
Molti sono scontenti delle cifre percepite, ritenute davvero basse per affrontare le spese mensili e chiedono maggiore sostegno per le politiche sul lavoro. Tecnicamente i comuni dovrebbero avviare i cosiddetti P.U.C. (progetti utili alla collettività), ma al momento sono pochi i comuni virtuosi, mentre gli altri registrano colpevoli ritardi.
Con il reddito di cittadinanza è emersa la figura del “furbetto”, vale a dire di colui che non avrebbe alcun diritto alla misura, ma che, aggirando gli ostacoli ed eludendo i controlli iniziali, riesce ugualmente ad intascarsi somme a lui non dovute. Sono tante, troppe, le storie di questi “furbetti” che hanno approfittato del reddito. Perfino esponenti mafiosi o finti poveri, hanno potuto beneficiarne.
Non manca poi il problema del lavoro nero. Sono parecchi coloro che, pur beneficiando del reddito di cittadinanza, svolgono un’altra attività lavorativa – ovviamente in nero – che porta a un vantaggio personale non indifferente. In questo perverso meccanismo è la collettività a perderci.
Il problema che più si verifica è legato alla possibilità di rinunciare al RdC, optando per un lavoro retribuito. Qui emerge una grande contraddizione: il più delle volte chi percepisce il reddito ha difficoltà ad accettare un lavoro il cui salario sarà nettamente inferiore al RdC. L’esempio classico è dato dai lavori stagionali sottopagati che registrano difficoltà nel reperimento di personale.
L’assenza di un salario minimo e una cultura lavorativa errata stanno mettendo in seria difficoltà interi settori facendo emergere ciò che in fondo si è sempre saputo. Chi accetterebbe mai un lavoro che, oltre costare tempo e fatica, viene pure sottopagato? Nessuno rinuncerebbe mai al RdC per svolgere un lavoro sottopagato (e magari in nero) senza, tra l’altro, avere una sicurezza circa la durata dell’occupazione stessa.
Vi è quindi un problema legato al mercato del lavoro, dietro le pregiudizievoli parole di chi sostiene con forza che vi siano i “fannulloni del reddito di cittadinanza“, una definizione lontana dalla realtà.
I Navigator rischiano di diventare un gruppo di precari, visto che, su molti fronti, la loro utilità viene messa in dubbio. Così come quella dei centri per l’impiego, che avrebbero meritato un corposo adeguamento mai avvenuto. Questo ha reso pressoché inutili e complesse le politiche attive sul lavoro.
Certamente il reddito di cittadinanza presenta numerose criticità, che lo rendono uno strumento di mero assistenzialismo, di cui l’Italia è maestra. Di fatto la misura non agisce sul lavoro e i PUC sembrano solamente una foglia di fico volta a coprire le carenze dei centri per l’impiego.
La misura appare scoordinata in diversi suoi punti. Sembra inoltre frutto di una manovra politica fatta di fretta per ingraziarsi l’elettorato, cosa che ha funzionato nella fase iniziale, ma che è scemata non appena la misura ha fatto emergere i suoi molteplici difetti.
Non è però una misura da abolire. Il RdC ha dato ossigeno a molti cittadini che si ritrovavano in difficoltà; ha inoltre fatto emergere le contraddizioni del mercato del lavoro italiano, che la politica finge di non conoscere. Non è nemmeno casuale, che l’attuale governo presieduto da Mario Draghi non abbia alcuna intenzione di abolire una misura che appare comunque utile alla collettività.
Urge una riforma che renda la misura più universale e maggiormente accessibile alla fascia di popolazione dimenticata.
Necessita soprattutto, di una riforma dei centri dell’impiego. La misura, infatti, deve assolutamente basarsi più sulla ricerca del lavoro che sulla mera elargizione di danaro.
Benito Rausa
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