PECHINO – La censura cinese non si ferma più. Se prima erano state messe al bando le backdoor nei software di uso comune nei sistemi operativi nazionali e, successivamente, era stata dichiarata illegale la crittografia, ad oggi si sta pensando di vietare il possesso di software d’uso generico. Reporters Sans ha da poco pubblicato il Word Press Freedom Index (una classifica in ordine decrescente del livello di libertà di stampa in determinate nazioni): la Cina occupa la posizione 176/180 (dietro di lei solo Siria, Turkmenistan, Corea del Nord ed Eritrea). E la situazione non sembra migliorare: ivi, infatti, chi usa persino i software di messaggistica cifrata è etichettato come potenziale terrorista. I poliziotti durante i posti di blocco possono tranquillamente richiedere il telefono al fine di esaminarlo per cercare prove di un’ipotetica attività illecita, che sia verso lo Stato o terzi.
Con la legge-bavaglio in Polonia (clicca qui per saperne di più) si erano già toccati livelli preoccupanti, ma la Cina sembra poter tranquillamente andare oltre tali limiti. Nemmeno WhatsApp e Telegram sfuggiranno, infatti, all’asperrima manovra di censura del big brother rosso. La Electronic Frontier Foundation (alias EFF, da tempo impegnata a battersi per la difesa della privacy), ha denunciato proprio la richiesta, fatta dal Governo di Pechino, di rimozione dei software sicuri dal proprio smartphone, per controllare minuziosamente gli usi e i movimenti dei loro rispettivi possessori. I cinesi, in tempi più remoti, avevano iniziato ad aggirare la “Grande Muraglia” della censura tramite lo scambio reciproco di chiavette USB, cd-rom e floppy disk ma, di recente, sono passati all’uso di WhatsApp e Telegram, le nuove chat di messaggistica istantanea online. In particolare l’ultima è dotato di due tipi di chat: la classica e l’end to end, un particolare tipo di scrittura cifrata.
Nella provincia dello Xinjiang, “casa” della minoranza musulmana Uigura, alcuni abitanti sono stati privati del servizio telefonico dall’oggi al domani. Naturalmente, vi sono state diverse proteste a cui sono seguite le direttive dei propri fornitori telefonici: la soluzione era rivolgersi alle Forze dell’Ordine locali. Questi hanno poi spiegato che l’interruzione del servizio in questione era la sanzione impostagli per uso di VPN (le reti private virtuali) o per download di software di messaggistica sicura. L’unico modo per i cittadini di poter rimettersi in contatto con il mondo esterno era rimuovere tali software o/e smettere di utilizzare i VPN. La suddetta regione era già nota alle Autorità come laboratorio della repressione statuale anche su Internet, soppressione che aveva portato all’arresto di diversi giornalisti e blogger. Nel 2009, la Polizia cinese era giunta, persino, al c.d. “Kill Switch“: con esso furono isolati sei milioni di utenti Internet residenti in Xinjiang.
Forse guardando al passato il sequestro del telefono non sembra poi così assurdo. Per ora la normativa colpisce soltanto il cittadino di etnia Uigura, in quanto ciò rende il proprietario un soggetto doppiamente pericoloso: sia sovvertitore per ragioni etniche, sia criminale perché utilizza WhatsApp e Telegram (o anche Skype). Secondo l’EFF tale legge, comunque, potrebbe presto essere estesa a tutti i cittadini. Ormai ai cinesi sembra restare come mezzo di comunicazione soltanto il piccione viaggiatore: bandiranno in futuro anche questo?
Francesco Raguni
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