Nelle giornate dell’8 e 9 Giugno 2025, l’Italia non è stata solo protagonista di un’importante tornata di consultazioni referendarie, ma anche teatro di numerose e accese polemiche. Chiamati a esprimersi su cinque quesiti abrogativi, gli elettori sono apparsi più confusi che persuasi dal recarsi alle urne. Il risultato è stato un nuovo, allarmante, trionfo dell’astensionismo. Che ha sollevato interrogativi cruciali sulla partecipazione democratica. Cerchiamo di capire insieme le ragioni e le implicazioni di questo fenomeno.
In questa chiamata al voto di inizio Giugno, al centro del dibattito, due distinti filoni di proposte referendarie hanno catalizzato l’attenzione pubblica. Da un lato, tre quesiti hanno riguardato il mondo del lavoro, temi sempre centrali nel tessuto sociale ed economico del Paese.
Queste proposte sono state promosse dal sindacato CGIL attraverso una vasta raccolta pubblica di firme che ha visto l’adesione di oltre quattro milioni di cittadini. Un segnale forte di partecipazione dal basso su questioni cruciali che toccano direttamente la vita quotidiana di milioni di italiani. Dall’altro, un significativo quesito ha posto l’attenzione sulla cittadinanza italiana, un tema dalle profonde implicazioni sociali e culturali.
Questa iniziativa è stata frutto dell’impegno congiunto di diverse forze politiche come +Europa, Possibile, Partito Socialista Italiano, Radicali Italiani, Rifondazione Comunista, affiancate da numerose associazioni della società civile, le quali hanno mobilitato oltre 637.000 firme a sostegno della proposta.
Previsto dall’articolo 75 della Costituzione, il referendum abrogativo è uno strumento di democrazia diretta che permette ai cittadini di esprimersi sulla cancellazione (totale o parziale) di una legge o di un atto avente forza di legge. Per essere valido, il referendum richiede il raggiungimento di un quorum: la partecipazione alle urne della maggioranza degli aventi diritto al voto.
Se il quorum viene superato e la maggioranza dei voti validi si esprime per l’abrogazione, la legge o la parte di essa oggetto del quesito viene abrogata. Questo meccanismo, pur essendo un pilastro della nostra democrazia, è spesso al centro di dibattiti proprio per la difficoltà nel raggiungere la soglia di partecipazione necessaria e per la complessità dei quesiti che spesso vengono sottoposti agli elettori.
Al centro della consultazione dell’8 e 9 giugno vi erano cinque quesiti referendari, distinti ma accomunati dall’intento di rafforzare diritti e tutele in ambito lavorativo e civile. Tre di questi riguardavano direttamente il lavoro. Il primo quesito puntava ad abrogare le norme del Jobs Act che, in caso di licenziamento illegittimo nelle aziende con più di 15 dipendenti, non prevedono più il reintegro del lavoratore, ma solo un’indennità economica.
Il secondo proponeva di eliminare il tetto massimo di sei mensilità previsto per l’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese, ampliando così la tutela economica. Il terzo quesito, invece, chiedeva di reintrodurre l’obbligo di causale nei contratti a termine inferiori a 12 mesi, per limitare il ricorso al lavoro precario.
Il quarto quesito affrontava il tema della sicurezza negli appalti, chiedendo di estendere la responsabilità solidale del committente anche ai danni causati da rischi specifici, oggi esclusi dalla normativa. Infine, il quinto quesito riguardava l’accesso alla cittadinanza: l’obiettivo era dimezzare da dieci a cinque anni il periodo di residenza necessario per gli stranieri extracomunitari maggiorenni per poter presentare domanda, favorendo così un percorso di integrazione più rapido.
Il dato più rilevante della tornata referendaria dell’8 e 9 giugno 2025 è senza dubbio quello sull’affluenza. Solo il 30,6% degli aventi diritto si è recato alle urne. Un risultato che conferma, ancora una volta, la difficoltà strutturale del referendum abrogativo in Italia. Il mancato raggiungimento del quorum del 50% + 1 ha reso giuridicamente inefficaci tutti i cinque quesiti proposti, nonostante l’ampio consenso registrato per il Sì in ciascun caso.
Questo disallineamento tra intenzione politica e validità formale del voto alimenta un cortocircuito democratico già emerso in precedenti consultazioni e sottolinea l’urgenza di una riflessione sulla tenuta e l’utilizzo di questo strumento nella democrazia contemporanea, poiché letta cosi la situazione è più che chiara: l’elettorato del “No” vince facile perché non si reca alle urne.
Va anche osservato che il tasso di affluenza è risultato piuttosto omogeneo tra i diversi quesiti, con scostamenti minimi tra l’uno e l’altro. Ciò suggerisce che non è stato il contenuto specifico dei quesiti a influenzare la partecipazione, ma piuttosto un atteggiamento complessivo di distacco o disillusione verso la consultazione nel suo insieme.
È pero importante sottolineare come il quesito della scheda gialla, quello sulla cittadinanza, sbandierato come quesito di punta e che avrebbe dovuto mobilitare maggiormente l’elettorato, è stato quello dove il “No” ha riscosso maggiore successo arrivando a un 34,6% di preferenze, un dato che sicuramente deve far riflettere sopratutto i partiti di sinistra e centrosinistra.
Analizzando i dati su base territoriale, emergono alcune regioni con livelli di partecipazione sensibilmente superiori alla media nazionale. Nei referendum su cittadinanza e lavoro, l’affluenza più alta è stata registrata in Toscana (39,1%), seguita da Emilia-Romagna (38,1%), Piemonte (35,2%) e Liguria (35,1%). La Toscana si conferma la regione con la partecipazione più elevata, e Firenze si distingue come la provincia con il dato più alto a livello nazionale, raggiungendo il 46%.
Tra le altre province con un’affluenza superiore alla media si segnalano Torino (39,3%), Milano (35,4%), Roma (34%) e Napoli (31,8%). Si tratta in prevalenza di grandi aree metropolitane, dove la campagna referendaria ha avuto maggiore visibilità mediatica e dove i promotori, come la CGIL e le associazioni civiche impegnate sul tema della cittadinanza, hanno potuto contare su una rete organizzativa più radicata ed efficace.
La provincia di Bolzano ha registrato l’affluenza più bassa a livello nazionale, con appena il 15,9% dei votanti. Complessivamente, la regione autonoma Trentino-Alto Adige ha fatto registrare un’affluenza del 22,7%, confermando un trend storico di scarsa partecipazione ai referendum nazionali, legato anche a una forte autonomia politica e a una limitata penetrazione delle campagne referendarie.
Tra le regioni con minore partecipazione si colloca anche la Calabria, con un’affluenza del 23,8%. Le principali province calabresi hanno mostrato valori inferiori alla media nazionale: Reggio Calabria si attesta intorno al 20%, Crotone e Vibo Valentia al 19%, mentre Cosenza raggiunge il 26%. La provincia di Catanzaro fa segnare il dato più alto, con un’affluenza del 28%.
In Sicilia il referendum ha registrato uno dei tassi di partecipazione più bassi a livello nazionale, con un’affluenza regionale ferma al 23,1%. Nessuna provincia ha superato la soglia del 26%, segno di una diffusa disaffezione verso lo strumento referendario.
Il dato migliore è stato rilevato a Enna, dove ha votato il 25,5% degli aventi diritto, seguita da Palermo con il 24,9% e Catania con il 24%. Leggermente inferiori i numeri registrati a Messina, ferma al 23,2%, e a Siracusa, con il 22,5%. Particolarmente bassi i livelli di partecipazione a Trapani (20,2%), Agrigento (19,6%) e Caltanissetta (19,8%).
Le principali città siciliane hanno mostrato una dinamica coerente con quella regionale. Palermo e Catania, i due maggiori centri urbani dell’isola, hanno visto una partecipazione che non ha superato il 25%, nonostante la presenza di reti civiche e sindacali che sostenevano alcuni dei quesiti. Il dato conferma la difficoltà strutturale, soprattutto nel Mezzogiorno, di attivare un coinvolgimento diffuso intorno a consultazioni abrogative, complici una campagna informativa poco penetrante e una sfiducia ormai consolidata nei confronti delle istituzioni rappresentative.
Negli ultimi anni, la partecipazione degli elettori italiani ai referendum ha seguito un andamento decrescente, soprattutto nelle consultazioni di tipo abrogativo. Nel 2011, ci fu l’ultimo referendum abrogativo ad aver raggiunto il quorum, che riguardava temi molto sentiti dall’opinione pubblica, ovvero la gestione dell’acqua, l’energia nucleare e il legittimo impedimento per le alte cariche dello stato.
In quell’occasione l’affluenza superò il 54%, sancendo la validità del voto e portando alla vittoria il “SI”. Da allora, però, la partecipazione è crollata. Nel 2016, il referendum sulle trivellazioni in mare si fermò al 31,2%, mentre i cinque quesiti abrogativi sulla giustizia proposti nel 2022 ottennero appena il 20,9% degli aventi diritto, segnando un record negativo nella storia referendaria del Paese. Diversa è stata la dinamica dei referendum costituzionali, che per loro natura non richiedono il raggiungimento di un quorum.
Il referendum del 2016 sulla riforma costituzionale proposta dal governo Renzi registrò un’affluenza molto alta, pari al 65,5%, a testimonianza del forte coinvolgimento dell’elettorato su un tema percepito come centrale per l’assetto istituzionale del Paese. Anche nel 2020, quando si votò per il taglio del numero dei parlamentari, l’affluenza superò il 51%, confermando che le riforme costituzionali continuano ad attirare un interesse ben superiore rispetto ai quesiti abrogativi.
Possiamo definire questo come un vero e proprio “referendum silenzioso” per diversi motivi. In primo luogo, è emersa in modo evidente – e da più parti duramente criticata – l’assenza di una grande campagna informativa istituzionale rivolta ai cittadini. Lo Stato e le sue articolazioni hanno mostrato un disinteresse che ha compromesso la comprensione dei quesiti e la consapevolezza del voto. Ma il silenzio ha riguardato anche la risposta della popolazione: l’astensionismo di massa ha confermato quanto il referendum sia stato ignorato dalla maggioranza dell’elettorato.
Emblematico, in questo senso, il meme diffuso da Forza Italia – poi ripreso ironicamente da diversi esponenti della destra – che invitava a “andare al mare” invece di recarsi alle urne. Una provocazione che si è trasformata in realtà, considerando il numero bassissimo di votanti. Questo atteggiamento, tutt’altro che marginale, impone una riflessione più ampia: la scelta del non voto, in questo contesto, ha assunto un valore politico concreto, più pesante e incisivo di un voto contrario.
La disinformazione, o meglio l’assenza deliberata di informazione, è stata secondo molti osservatori la principale causa del fallimento democratico di questa consultazione. Quando è nelle mani di soggetti potenti, la gestione opaca o strumentale dell’informazione può diventare un’arma pericolosa, capace di svuotare di senso uno degli strumenti fondamentali della democrazia diretta.
Un altro aspetto cruciale che merita attenzione riguarda la faziosità con cui è stata condotta la campagna referendaria nelle settimane precedenti al voto. Il dibattito pubblico si è trasformato in una sorta di tifoseria ideologica, con toni da stadio che hanno reso il voto un atto identitario più che una scelta razionale e informata. La logica del “noi contro voi”, applicata a temi complessi e tecnici, ha prodotto una forte polarizzazione, spingendo gli elettori indecisi verso decisioni affrettate e spesso confuse, mentre coloro già schierati hanno finito per ignorare il merito dei quesiti, focalizzandosi unicamente sulla propria posizione di appartenenza.
In questo contesto, anche le forze di centrosinistra portano una responsabilità significativa: hanno contribuito a irrigidire il confronto, rinchiudendosi in una dinamica autoreferenziale. La chiusura nelle mura del proprio castello ideologico può rafforzare l’unità interna, ma rischia di essere una strategia miope. Per costruire una reale alternativa politica e culturale, è indispensabile saper parlare anche a chi è fuori dal proprio perimetro, aprendo il confronto e coinvolgendo nuovi segmenti dell’elettorato.
Questo ennesimo trionfo dell’astensionismo riapre un dibattito necessario sull’efficacia e sull’attualità del referendum abrogativo. Quando meno di un elettore su quattro si reca alle urne, è inevitabile interrogarsi sulla sostenibilità di uno strumento che oggi sembra incapace di coinvolgere i cittadini. È forse giunto il momento di rivedere le regole sul quorum: abbassarlo o eliminarlo potrebbe offrire una misura più realistica e concreta della volontà popolare, evitando che l’astensione diventi sistematicamente un veto di minoranza.
Altro nodo fondamentale è la totale assenza di una campagna informativa istituzionale. In un referendum che tocca temi vitali come il lavoro e la cittadinanza – diritti che incidono direttamente sulla vita quotidiana – è inaccettabile che lo Stato rinunci al proprio ruolo di garante della conoscenza. Informare significa dare strumenti, non orientare il voto. Senza questo passaggio, ogni chiamata al voto rischia di trasformarsi in un esercizio sterile.
Infine, perché il referendum abrogativo torni a essere un meccanismo di democrazia viva e partecipata, deve uscire dalla logica delle contrapposizioni partitiche e tornare a parlare di politica, non di partiti o fazioni. Solo se smetterà di essere usato come bandiera propagandistica e tornerà a essere uno strumento di scelta consapevole, potrà recuperare credibilità. Se non riuscirà in questo passaggio, continuerà a produrre solo silenzi. E in democrazia, quando a parlare è solo il silenzio, il rischio è che a decidere sia il vuoto e non il voto.
Marco Vasta
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Articoli di proprietà di Voci di Città, rilasciati sotto licenza Creative Commons.
Sei libero di ridistribuirli e riprodurli, citando la fonte.
Classe 1999, nato a Catania, laureato in Scienze Politiche, sia triennale che magistrale, ma soprattutto grande tifoso del Milan.
Dopo un’esperienza da redattore per VDC durante il tirocinio curriculare, Marco ha scelto di tornare a coltivare una delle sue più grandi passioni: la scrittura. E lo fa proprio nella redazione che, per un periodo importante della sua vita, è stata una vera casa.
Tra i suoi interessi, oltre a fingersi surfista per evitare le chiamate scomode con la frase “sono a mare, non prende”, spiccano la politica e tutto ciò che ha un impatto sociale. Per questo ha deciso di dedicare i suoi studi, il suo tempo libero e la sua penna al dibattito pubblico e ai temi d’attualità.