aborto

Aggiornata ad ottobre 2016 – Fonte: nexquotidiano.it

Seppur in Italia, da quasi 40 anni, la legge 194 del 1978 recante Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza garantisca alle donne la facoltà di poter abortire nel rispetto di determinati canoni di legge, più volte è accaduto che si morisse in sala parto a causa di medici obiettori di coscienza. La legge, comunque, oltre a disciplinare i casi in cui si possa applicare l’interruzione volontaria della gravidanza (art. 4, art. 6 della 194/1978), regola tramite l’art.9 della suddetta normativa anche le ipotesi di obiezione di coscienza: «Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione. La dichiarazione dell’obiettore deve essere comunicata al medico provinciale e, nel caso di personale dipendente dello ospedale o dalla casa di cura, anche al direttore sanitario, entro un mese dall’entrata in vigore della presente legge o dal conseguimento della abilitazione o dall’assunzione presso un ente tenuto a fornire prestazioni dirette alla interruzione della gravidanza o dalla stipulazione di una convenzione con enti previdenziali che comporti l’esecuzione di tali prestazioni» (comma 1). Inoltre «L’obiezione può sempre essere revocata o venire proposta anche al di fuori dei termini di cui al precedente comma, ma in tale caso la dichiarazione produce effetto dopo un mese dalla sua presentazione al medico provinciale. L’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento» (commi 2 e 3). 

Ai sensi del quarto comma dell’articolo in questione, comunque, «gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale». Proprio in merito a tale legge, di recente, sono state presentate in Parlamento diverse proposte di modifica, secondo quanto riporta il fattoquotidiano.it. Una delle più significative è senza dubbio quella presentata dai deputati di Alternativa libera-Possibile che si prepone di raggiunge un maggiore equilibrio tra le ambedue legittime richieste che spesso si trovano contrapposte nei casi di aborto, cioè quella dell’esercizio dell’obiezione di coscienza e quella della pretesa di ricorrere alle pratiche ex 194/1978, oltre a garantire che almeno la metà del personale sanitario e ausiliario degli ospedali e delle strutture autorizzate non sia obiettore. Nella stessa direzione garantista vi è pure la proposta della deputata del Partito Democratico, Giuditta Pini, la quale prevedrebbe che per divenire direttore di una struttura sanitaria autorizzato ovvero per dirigere il reparto competente in ospedale bisognerebbe o non essere obiettori a prescindere oppure non esserlo stato nei 24 mesi precedenti.

abortoIl senatore Maurizio Romani (medico di professione) non ha di certo usato parole tenere per commentare la faccenda: «Oggi purtroppo ci sono regioni o strutture in cui la percentuale supera il 90 per cento. In uno stato laico questo è una sconfitta perché significa che la legge non viene tutelata. Chi non vuole fare interruzioni di gravidanza non dovrebbe fare il ginecologo, i legislatori invece hanno il compito di fare leggi e farle applicare» è quanto riporta Il Fatto. Cadono a fagiolo, in merito, i commi 5 e 6 del sopra citato articolo 9: «L’obiezione di coscienza non può essere invocata dal personale sanitario, ed esercente le attività ausiliarie quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo. L’obiezione di coscienza si intende revocata, con effetto, immediato, se chi l’ha sollevata prende parte a procedure o a interventi per l’interruzione della gravidanza previsti dalla presente legge, al di fuori dei casi di cui al comma precedente».

L’Italia, ad oggi, può contare una media, calcolata dall’ISTAT, di 93.000 aborti l’anno, nettamente inferiore a quella registrata nel periodo in cui fa varata la legge 194, 213.000. Naturalmente i dati non contano le numerose pratiche di interruzione volontaria della gravidanza che avvengono al di fuori dell’ambito legale a causa (anche) degli obiettori di coscienza. E l’Italia può persino ritenersi fortunata ad avere una disciplina normativa in merito: basti pensare al Cile, dove migliaia di donne dal 2013 combattono per avere maggiori tutele in tema (clicca QUI per saperne di più), oppure alla Cina, dove l’aborto è severamente vietato, ma al contempo esiste un mercato nero parallelo che specula su questo divieto, offrendo ciò che lo stato non vuole dare. La 194 rappresenta una conquista fondamentale per la donna, anche perché è lei l’unico soggetto che può realmente decidere se abortire o meno (in determinate condizioni e tempistiche), dato che la normativa non dà alcun peso alla volontà dell’uomo (fidanzato, convivente more uxorio o coniuge che sia). L’art. 1, tra l’altro, spiega come «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio», proprio alla luce di tale solennità e importanza c’è aria di preoccupazione intorno a eventuali modifiche che potrebbero stringere troppo le maglie della 194 ovvero snaturarla totalmente, rendendola tutto il contrario di ciò che il legislatore del ’78 aveva previsto. È anche vero, però, che nessuno dovrebbe morire in una sala d’ospedale per il mero rifiuto di un medico obiettore (l’ultimo caso che risuonò in tutta la Penisola si verificò a Catania, quando un medico, rifiutandosi di operare prima che i due nascituri contenuti nel grembo della paziente fossero ambedue deceduti, ha causato la morte di una giovane donna). Di fronte alla vita umana (e alla sua tutela), quindi, è giusto che cada ogni valore etico e religioso? O forse basterebbe semplicemente precludere ai medici obiettori lo svolgimento della professione ginecologica? Certamente prima o poi si dovrà ovviare a tale necessità e il legislatore, a quel punto, sarà costretto a fare una scelta.

Francesco Raguni