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Carrozze solo per donne: un’efficace tutela o una sconfitta culturale?
16 Dicembre 2021
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Carrozze solo per donne: un’efficace tutela o una sconfitta culturale?

Home » Best politik » Carrozze solo per donne: un’efficace tutela o una sconfitta culturale?

A seguito di una tentata violenza sessuale e di una violenza sessuale consumata, avvenute nei confronti di due donne sulla linea ferroviaria regionale Milano-Varese, è partita una petizione volta a chiedere l’istituzione di carrozze sui treni riservate alle sole donne. Ci si interroga sul fatto che ciò possa rappresentare una maggiore sicurezza per le donne, o se invece possa rappresentare una segregazione che andrebbe a colpire le potenziali vittime e non gli aggressori.

Gli avvenimenti sulla linea ferroviaria Milano-Varese e il lancio della petizione su change.org

La questione è stata originata da quanto accaduto circa una settimana fa: due giovani donne sono state oggetto di aggressioni sessuali, nello specifico una tentata violenza e una violenza consumata. I fatti sono avvenuti uno a bordo del treno regionale di Trenord Milano-Varese, l’altro nella sala d’aspetto della stazione di Vedano-Olona, e i responsabili sono stati successivamente arrestati dai Carabinieri, mentre erano intenti a partecipare ad una festa in un’abitazione: un 21enne italiano e un 27enne marocchino. A fronte di tutto ciò, una donna di Marnate (VA), ha pubblicato una petizione su change.org, con la quale avviava una raccolta firme per richiedere l’istituzione di carrozze riservate alle sole donne sui treni, dichiarando: «Abbiamo il diritto di usare i mezzi pubblici a qualsiasi ora del giorno senza paura. In altri paesi, sui mezzi di trasporto anche locale esistono carrozze dedicate alle sole viaggiatrici». La proposta della donna è stata oggetto di discussione e di critiche, al momento ha raccolto 25mila firme.

Un provvedimento risolutivo del problema o una sconfitta culturale?

Il punto centrale della questione è se un provvedimento di questa tipologia sarebbe un efficace mezzo di tutela, o se invece finirebbe per penalizzare e segregare le donne, puntando sulle vittime per risolvere il problema e non sugli aggressori, rappresentando una sconfitta culturale. Sicuramente la proposta è sorretta da buona fede e da esasperazione, ma non pare rappresentare un metodo efficace per combattere la violenza di genere. Vale la pena menzionare quanto detto dalla scrittrice e giornalista del The Vision Jennifer Guerra, che ha messo su carta qualcosa che tutte le donne hanno avuto modo di provare, almeno una volta nella vita, dandone una chiave di lettura approfondita: «È vero che la vicinanza di altre donne rende una carrozza un posto più sicuro. Anche io quando prendevo il treno tutti i giorni cercavo di sedermi vicino ad altre donne: la loro sola presenza mi rassicurava e mi faceva sentire più protetta. Ma queste sono pratiche di autotutela che le donne mettono in atto proprio perché vivono in una società che non le fa sentire al sicuro: guardarsi le spalle, pensare di continuo alla propria sicurezza, cercare uno sguardo rassicurante sono il prodotto di una società sessista, non uno strumento per combatterla».

Alcuni mezzi di autotutela inventati dalle donne per proteggersi

Insomma, è sotto gli occhi di tutti che le donne si siano spesso dovute ingegnare autonomamente per far fronte a queste situazioni, basti pensare anche alle applicazioni come Donnexstrada, Wher, Bsafe, Sekura e Parachute. La prima, Donnexstrada, si occupa di fare campagna contro la violenza sulle donne e consente di attivare un servizio che permette di essere incluse in dirette Twitter mentre si torna a casa da sole. Wher invece è un’applicazione che copre più di 20 città Italiane e consente di valutare le vie percorse dalle donne, in modo da creare una sorta di mappa che indichi il percorso più sicuro in zone non conosciute, grazie ad un meccanismo di colori: verde, giallo e rosso, a seconda della sicurezza. Con Bsafe, Sekura e Parachute, è inoltre possibile attivare un pulsante SOS che contatta automaticamente i numeri messi fra i preferiti, integrando anche una segnalazione della posizione rilevata dal Gps; Sekura è gratis, mentre le altre due sono a pagamento, ma consentono anche di mostrare e far ascoltare in diretta ciò che sta accadendo, fornendo un utile mezzo per il riconoscimento degli eventuali aggressori attraverso il video. Infine, c’è 112 where are u, che consente di contattare direttamente le forze dell’ordine (si rivolge infatti al numero unico di emergenza europeo), le quali riceveranno automaticamente anche la posizione Gps. A fronte di tutto ciò, appare evidente che vi sia un problema, e che questi mezzi inventati dalle donne non possano essere l’unica risposta: rappresentano il frutto dell’esasperazione delle donne, il loro bisogno di autotutelarsi in qualche modo, visto che lo Stato non se ne occupa adeguatamente.

L’assenza di una risposta adeguata dello Stato alla richiesta di sicurezza delle donne

La questione è decisamente complessa, va a toccare un problema culturale relativo all’educazione al rispetto della donna. Il compito di uno Stato di diritto, che si fa carico di perseguire l’inclusione e la parità di genere, dovrebbe essere quello di dare sicurezza sociale alle donne, senza isolarle e segregarle in appositi vagoni, perché ciò significherebbe andarne a limitare la libertà, quasi come se il problema fossero loro, non andando ad incidere sugli aggressori uomini, che invece dovrebbero essere l’oggetto di provvedimenti (ad esempio inserendo più forze dell’ordine sui convogli ferroviari). Un provvedimento di questo tipo darebbe il messaggio che le aggressioni nei confronti delle donne siano qualcosa di inevitabile con cui dover convivere: lo Stato avvallerebbe la concezione per cui sia normale che una donna debba rischiare di essere molestata, aggredita o violentata, sobbarcando oltretutto nuovamente la donna della responsabilità di evitare la possibile violenza. In conclusione, pare evidente che alla base lo Stato dovrebbe effettivamente educare e garantire il rispetto, non solo a parole, in modo che passi il messaggio culturale racchiuso nella semplice quanto esplicativa frase “Non proteggere tua figlia, educa tuo figlio“.

Stefania Piva

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Stefania Piva

About Stefania Piva

È nata e vive a Milano, laureata in giurisprudenza all’Università Statale di Milano, praticante avvocato presso l’Avvocatura dello Stato di Brescia. Da sempre appassionata di politica e giornalismo, ha scritto in precedenza per il giornale locale ABC Milano. Ama il trekking in alta montagna ed esplorare i fondali marini per districarsi fra lo stress cittadino e le udienze in tribunale!

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