All’eccentrica figura di Donald Trump, presidente degli Stati Uniti d’America nonché ricco magnate dell’industria d’oltreoceano tanto si può rimproverare in ambito politico, ma di certo non gli si può imputare di far promesse da marinaio. Per il Tycoon, come dicevano i latini, pacta servanda sunt. E così a pochi mesi della sua elezione il leader degli USA sta già provvedendo a ottemperare tutto ciò che aveva promesso ai suoi elettori durante la propria campagna elettorale.
Secondo quanto riporta il Washington Post, Trump starebbe valutando di annullare tutte le tutele per gli LGBT che lavorano all’interno del governo e avrebbe già abbozzato la direttiva che, per l’appunto, rimuoverebbe la precedente ordinanza di Obama secondo cui erano vietate le discriminazioni tra i dipendenti federali in base al loro orientamento sessuale e al proprio genere. Fonti anonime, volontariamente restate tali poiché ancora la decisione non è definitiva, confermerebbero quanto sopra detto. Riporta repubblica.it «Non parlo di ordini esecutivi che potremmo o non potremmo emanare. Ce ne sono tanti, tante cose di cui il presidente ha parlato e che continuerà ad attuare, ma ora non abbiamo nulla su quel fronte» queste le parole di reticenza dette dal portavoce della Casa Bianca, Sean Spice. Più dura è stata, invece, la risposta di James Esseks, direttore del programma LGBT dell’unione americana per le libertà civili: «L’amministrazione Trump ha dimostrato che vuole andare contro i valori fondamentali americani di libertà e uguaglianza ed è inquietante che potrebbe prendere di mira anche le persone LGBT». Intanto, oltre che alla voce «climate change», anche alla parola «LGBT» il motore di ricerca della White House risponde con un semplice «Sorry, no results found».
Donald Trump ha nominato come ottavo giudice della Corte Suprema (presidente escluso) Neil Gorsuch, un maschio bianco, estremamente conservatore e profondamente religioso. Con la sua nomina, Trump si è assicurato di blindare il terzo potere: il giudice in questione, infatti, è stato nominato per colmare il vuoto lasciato da Antonin Scalia, giudice repubblicano con i medesimi valori del suo successore, deceduto durante il tramonto del secondo mandato di Obama. E così, oltre all’egemonia nel Congresso (a maggioranza repubblicana sia alla Camera che al Senato), Trump potrebbe assicurarsi anche il “controllo” delle sentenze costituzionali, che in un Paese di common law, come gli USA, contano davvero tanto. Il sogno di una Corte orientata a destra, comunque, non è poi così remoto se si considera che, vista la veneranda età di altri due giudici quali Ruth Bader Ginsburg (democratica, 83) e Anthony Kennedy (repubblicano moderato, 80), Trump potrebbe nominare più di un nuovo membro. Tornando alla figura di Gorsuch, comunque, è doveroso ricordare la sua posizione totalmente sfavorevole alle unioni civili tra omosessuali e all’aborto.
Per l’avvocatessa Sarah Weddington «Trump va all’assalto dei diritti di noi donne, della democrazia. La Corte suprema è l’ultimo freno. Ma con la nuova nomina, anche quell’ultima barriera di protezione rischia di cadere», come riporta Repubblica. Per lei la nomina di Gorsuch «sposta gli equilibri a favore dei conservatori, e tremo all’idea che i volti più progressisti della Corte, come l’83enne Ruth Bader Ginsburg, possano “andare in pensione”. Trump userà le sue nomine per aggredire i diritti, e il diritto per le donne di abortire è in cima alla sua lista. L’unico pensiero che mi rasserena è che a volte i giudici hanno sorpreso: in virtù della loro indipendenza, anche quelli di destra hanno fatto scelte liberal».
Un altro dei punti fermi della politica del Tycoon è senza dubbio il muro da erigere al confine con il Messico, anche se esiste già una barriera che separa gli Stati Uniti dal territorio nazionale messicano: secondo il Washington Post, Trump, qualora volesse realmente attuare il suo progetto, potrebbe anche limitarsi a rinforzare la linea di separazione attuale, aggiungendo una recinzione. Il costo dell’operazione orbiterebbe intorno ai 20 miliardi di dollari. La volontà di costruzione del muro ha ovviamente inasprito i rapporti tra gli Stati Uniti e il Messico, soprattutto alla luce di alcune dichiarazioni in cui Trump affermerebbe di voler far pagare le spese di costruzione al Messico stesso. La situazione sembrerebbe abbastanza semplice, ma in realtà non è così: infatti il governo americano vorrebbe imporre un dazio del 20% sulle importazioni dal Messico che, in un anno, permetterebbe di far entrare nelle casse dello Stato circa 10 miliardi dollari (con questa tassa, in due anni, gli USA raccoglierebbero la cifra idonea a coprire totalmente le spese di costruzione). La risposta del presidente messicano, Enrique Peña Nieto, è stata tutt’altro che morbida: «pretendiamo rispetto, e comunque non saremo noi a pagare. Condanno e mi rammarico per la decisione del governo statunitense di continuare con la costruzione di un confine che per anni – riporta repubblica.it – ci ha diviso più di quanto ci abbia unito. Il mio Paese, il Messico, dà e chiede il rispetto dovuto come nazione sovrana».
Eppure, secondo alcuni giornali statunitensi, il presidente del Messico starebbe semplicemente facendo il doppio gioco: mentre afferma a gran voce di volersi opporre con ogni mezzo alla linea politica “trumpiana”, in realtà sta già pensando a come negoziare l’impunità per il suo Esecutivo e la sua amministrazione, coinvolta in scandali di ogni genere. Altri affermano che, paradossalmente, è stato proprio il Messico, con il suo forte fenomeno migratorio, a favorire l’ascesa al potere del Tycoon. Tuttavia, l’erezione del muro sarebbe solo uno dei mezzi con cui il presidente degli USA vorrebbe combattere l’immigrazione clandestina: in seconda battuta, infatti, sono stati tagliati i fondi destinati alle c.d. sanctuary cities, cioè le città che non riconoscono il reato di immigrazione clandestina.
La misura più schierata e più forte, icona del pugno ferro dell’amministrazione firmata Donald Trump, è certamente l’ordine esecutivo firmato il 27 gennaio – la cui ratio sarebbe ravvisabile nella volontà di tutelare gli USA dall’ingresso di terroristi negli USA – che prevede il divieto di entrata nel territorio statunitense per tutte le persone provenienti da Siria, Iraq, Yemen, Libia, Somalia, Iran e Sudan. Eppure l’unico divieto assoluto è quello imposto ai siriani, per gli altri Paesi, invece, l’ingresso è limitato a soli 90 giorni, salvi i detentori di doppia cittadinanza e passaporto diplomatico (praticamente il tempo di rivedere tutti i visti rilasciati). Il divieto, inoltre, riguarda anche gli immigrati in regola e/o detentori della Green Card i quali hanno due costrizioni: se vogliono lasciare gli USA, devono prima chiedere un’autorizzazione preventiva al Governo per rientrare; se vogliono entrare (o rientrare) negli USA, devono prima chiedere un permesso speciale presso il consolato americano.
Quanto sopra detto ha causato non poche proteste che sono passate prima dalle strade e poi dagli aeroporti, dove tantissimi avvocati si sono riuniti per prendere le difese di più cittadini americani (stranieri) spiazzati dal decreto firmato da Donald Trump. Eppure, nonostante ciò, il consenso del candidato repubblicano che, contro ogni pronostico ha battuto Hillary Clinton, candidata democratica alle elezioni presidenziali, non sembra ridursi: in base ai dati raccolti dall’ultimo Reuters/Ipsos (datato 30-31 gennaio 2017), il 49% degli americani “adulti” sostiene le misure adottate dal nuovo leader della Casa Bianca mentre il 41% si oppone, disapprovando l’eccessiva invasività e durezza di tali provvedimenti; il 10%, invece, non si è schierato né da una parte né dall’altra. E in tutto ciò come si stanno comportando i democratici? Potrà sembrare strano, ma solo il 53% di essi è contro la linea politica adottata dal Tycoon. Insomma, gli statunitensi hanno un fronte di comune accordo: la riduzione dell’immigrazione, nonché il suo maggior controllo. Ciò che spacca il popolo dello Zio Sam è il modus operandi con cui tali misure devono (e/o sono) attuate.
Francesco Raguni
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