Bristol County, Massachusetts. È giunto il primo verdetto per uno dei processi più dibattuti e discussi degli ultimi anni in America: Michelle Carter è stata condannata a vent’anni di reclusione per l’omicidio colposo del fidanzato Conrad Roy III, risalente al 12 Luglio 2014. La decisione è avvenuta venerdì e non sono mancate, sin da subito, le critiche rivolte al giudice Lawrence Moniz per quello che sembra essere, sotto molti punti di vista, una risoluzione storica per le corti americane.
Per comprendere, tuttavia, l’importanza e le conseguenze di quanto è stato affermato nella sentenza è necessario fare un passo indietro e tornare alla morte di Conrad Roy III e alla relazione che vi era con Michelle Carter. I due si conoscono in vacanza con i rispettivi genitori e scoprono di vivere a poche ore di distanza l’uno dall’altra; da lì inizia una relazione costruita sui social media e alimentata tramite sms, si vedono in rare occasioni ma parlano costantemente al cellulare. Conrad è un ragazzo estremamente sensibile, soffre di una grave instabilità emotiva dovuta ad anni di abusi verbali e fisici da parte dei suoi genitori, tanto da aver tentato di togliersi la vita in quattro occasioni differenti. Michelle è afflitta da disordini alimentari e prende diversi psicofarmaci da quando aveva quattordici anni dopo essere stata in cura per depressione. I ragazzi si confessano così in una serie di messaggi ed è proprio via sms che Conrad le confida di pensare nuovamente da tempo al suicidio. Michelle cerca di dissuaderlo per mesi, fino a quando cambia idea e decide di incoraggiarlo ad andare avanti con i suoi propositi «è arrivato il momento e sei pronto, devi solo farlo ! Non puoi vivere così. Devi solo fare come la volta scorsa e non pensarci più». Conrad si toglie la vita il 12 Luglio 2014, morto dopo aver inalato i fumi del tubo di scappamento della sua auto.
Le dinamiche dell’incidente sono chiare, Conrad Roy III si è suicidato dopo essere stato istigato a togliersi la vita dalla sua fidanzata. Come si è arrivati, tuttavia, a riconoscere Michelle Carter responsabile di omicidio colposo in uno Stato che, come il Massachusetts, non contempla un’equivalente al nostro reato di istigazione al suicidio ?
Inutile dire che, sotto questo punto di vista, la decisione del giudice Moniz di riconoscerne gli estremi è sembrata dubbiosa, se non addirittura incostituzionale. Secondo vari esperti, infatti, le azioni di Michelle non sarebbero tali da poter integrare tale reato, «il suo comportamento è stato orribile ma non significa che sia omicidio colposo […] in questo modo l’accusa afferma che le parole di Carter sarebbero l’arma del delitto e che lei abbia direttamente causato la sua morte» commenta Daniel Mewed, professore alla Northwest University school of Law. Esistono solo due precedenti in cui una giuria aveva riconosciuto un imputato colpevole per aver assistito qualcuno in un suicidio ma, in entrambi i casi, si trattava di un aiuto materiale: ciò che complica oltremodo la questione è l’assenza di una condotta concreta a determinare la morte di Conrad Roy III.
La difesa ha, inoltre, affermato che Michelle nelle settimane precedenti agli avvenimenti – coincidenti con il periodo in cui ha smesso di dissuadere Conrad – avesse cambiato trattamento per la sua depressione, passando dal Prozac al Celexa, il che avrebbe contribuito alla creazione di un disturbo delirante tale da farle percepire il suicidio come un sollievo per il fidanzato.
L’accusa, tuttavia, ha riconosciuto la colpevolezza di Michelle in una singola chiamata che avrebbe avuto con Conrad nella notte del suo suicidio, in cui dopo essersi spaventato ed essere fuggito dall’auto in cui si diffondevano i fumi del tubo di scappamento aveva deciso di desistere dal suo intento suicida. Lei gli avrebbe, però, ordinato di rientrare in macchina e farla finita una volta per tutte, rimanendo al telefono per più di venti minuti prima che Conrad morisse per asfissia. La telefonata è andata persa ma è stato salvato un messaggio che Michelle avrebbe mandato ad un’amica in cui confessa l’accaduto.
Nonostante sia stato raggiunto un verdetto, gli esperti non ritengono che questa sia la fine della vicenda. Il 3 Agosto Michelle Carter avrà la sentenza definitiva e, sebbene sia stata condannata a vent’anni di reclusione, nessuno si aspetta che sarà questa la decisione finale: «sono sicuro che il giudice si mostrerà clemente dati i suoi problemi di mente e di salute […] – ha commentato, nuovamente, Daniel Medwed – il verdetto manda un messaggio deciso ma non significa che alla fine verrà condannata a vent’anni». In pochi, inoltre, si aspettano che la sentenza diventi un precedente storico dato che deve ancora passare dalla Corte d’Appello: è quasi sicuro che verrà respinta per mancanza di una concreta correlazione tra la condotta di Michelle e il fatto accaduto. Gli esperti si aspettano un simile risultato ma ritengono anche altrettanto sicuro che, a seguito di questa vicenda, lo Stato del Massachusetts si doterà presto di una nuova legge che colpisca l’istigazione al suicidio e che il caso di Conrad Roy III servirà da base per introdurre questa futura legislazione.
Francesco Maccarrone
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