MOTTA S.ANASTASIA (CT) – L’uomo è un mendicante che crede di essere un re, questo il titolo del nuovo libro di Totò Cuffaro, uscito dal carcere lo scorso dicembre. Nella giornata di ieri, presso l’aula magna dell’Istituto comprensivo Gabriele D’Annunzio, si è tenuta la presentazione del suddetto libro, alla presenza delle autorità mottesi e dello scrittore Salvatore Massimo Fazio, che ha svolto il ruolo di moderatore. Totò Cuffaro è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e rivelazione di segreto d’ufficio, a scontare una condanna di 7 anni, ridotti a 4 anni e 11 mesi. Durante la reclusione, l’ex Presidente della regione Sicilia ha scritto anche Il candore delle cornacchie, libro in parte oggetto della testimonianza di Cuffaro durante la presentazione.
Il moderatore ha subito sottolineato che i due valori fondamentali alla base dello scritto sono la speranza e la Passione, con la “p” in maiuscolo, che hanno assistito l’ex Presidente durante la reclusione; ha poi continuato a ripercorrere i pilastri dell’opera, come la lotta contro il pregiudizio nei confronti dei carcerati e la scrittura come mezzo di redenzione e salvezza. Salvatore Cuffaro ha inizialmente ringraziato il pubblico intervenuto per il tempo regalatogli, citando Seneca; ha sostenuto con forza che il senso della giustizia deve essere rispettato e che l’atto del costituirsi è stato espressione di questo dovere. L’opera parla dell’esperienza in carcere, di un Totò che diventa una figura trina composta da Totò, Tota e Totapig, riferimento al noto cartone animato Peppa Pig, metafora di un mendicante che si crede re e che attraverso l’esperienza del carcere ha come una rivelazione sul senso della vita, in un gioco di contrasti tra pensieri negativi e la spensieratezza. Il carcere viene definito dall’autore come qualcosa che «ti toglie tutto, anche il lungo respiro della vita», ma allo stesso tempo come una comunità in cui si coltiva umanità e generosità, contro gli stereotipi che portano la società ad abbandonare il recluso.
Un’immagine spesso presente nelle sue opere è quella della cornacchia, che durante il primo giorno di isolamento a Rebibbia, dalla finestra, gli ha ricordato che doveva vivere, ad ogni costo. Cuffaro si è fatto portatore di un’idea della pena realmente rieducativa, anche dichiarando la sua avversione per l’ergastolo. Quando si inizia a parlare del processo, l’atmosfera di ammirazione del pubblico non muta. L’ex governatore dichiara: «Il mio processo appartiene alla mia coscienza, ho pagato» e ancora «Mi sento di dover chiedere scusa ai siciliani per quello che ho fatto e non ho fatto». Non convince tutti il pentitismo di Cuffaro, soprattutto quando cita Alfieri nella famosa frase «Sol chi non fa non sbaglia», affermando di essere fiero di aver agito, di non essere rimasto fermo, ma non dei suoi errori. L’ex politico parla di politica, di una politica che non è più etica, della scrittura che ti salva, del Cristo umano che ha incontrato in carcere, delle sue corrispondenze con Papa Benedetto XVI e Papa Francesco, della visita alla madre e della seduta di laurea del figlio negate dalla magistratura, mentre nell’aula scrosciano gli applausi. Afferma, infine, che non tornerà in politica e che andrà a gestire un ospedale in Burundi, sottolineando ripetutamente di non voler sembrare un martire.
Cuffaro ironizza sui baci dati a personaggi sconvenienti, ricorda al pubblico che i gabbiani non volano sul mare ma sulle discariche, come se non stesse parlando con i cittadini che più in Sicilia hanno a che fare con il mondo della spazzatura, su cui hanno speculato mafia e politica. Abbracci, vigorose strette di mano, risate e autografi con dedica dominano l’atmosfera in cui avviene una surreale damnatio memoriae di quello che è stato. Rieducare sì, dimenticare no, potrebbero obiettare alcuni.
Viviana Giuffrida
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