Ancora oggi sembra un’impresa impossibile riuscire a citare un paese al mondo nel quale sia stato possibile arginare la disparità salariare tra uomini e donne. Il gender pay gap (differenziale retributivo di genere) non costituisce affatto una nuova realtà ai nostri occhi, ma piuttosto si rivela il riflesso di una condizione ormai consolidata nel tempo, difficile da ridurre rispetto ad altri tipi di divari fra uomini e donne. Sebbene ormai, almeno nei paesi occidentali, le donne siano riuscite ad aprirsi strade notevoli nel lavoro, l’istruzione, nella presenza nelle istituzioni e nei posti di potere, perché allora ci troviamo ancora a doverci porre la domanda del perché le donne guadagnino meno degli uomini?
Solo negli ultimi giorni il ministero dell’economia e delle finanze (Mef) ha reso noti i dati delle dichiarazioni dei redditi del 2015: dati molto significativi per poter costituire una mappatura dei redditi per regione, comune, settori di attività, ma che non a caso trascurano nella loro analisi proprio il dato delle disparità di genere. L’Internazionale, assieme a un’elaborazione fatta dal Dipartimento finanze del Mef sulle dichiarazioni Irpef, ha reso noti i dati sul gender gap emersi dall’Irpef, che vede una differenza nei redditi medi dichiarati al fisco tra uomini e donne italiane pari al 33,4 per cento. Se invece si prendono in esame solo i dati sul lavoro, la differenza risulta fra il 26-28 per cento, a seconda che si tratti di lavoro dipendente o autonomo. Questi dati però, essendo relativi esclusivamente alle persone che presentano la propria dichiarazione dei redditi, non consentono di cogliere le disuguaglianze concrete sul posto di lavoro e non comprendono nell’analisi chi non ha un lavoro o ha un reddito inferiore al minimo imponibile.
Diversamente il gender pay gap grezzo, l’indicatore ufficiale del gender pay gap utilizzato dall’Unione Europea come base delle sue strategie per la parità economica, che non misura redditi aggregati ma le paghe orarie delle donne confrontandole con quelle degli uomini, ci rivela che nel 2015 il gap retributivo fra i due sessi era del 16,5 per cento nei paesi dell’Unione: per fare un esempio più pratico si stimano per ogni 100 euro guadagnati da un uomo poco più di ottanta euro guadagnati rispettivamente da una donna. In questa stessa classifica scomponendo i dati relativi ad ogni paese, l’Italia non si posiziona male con gap pari al 5,5 per cento nel complesso della sua economia nazionale, che però non include nelle sue stime la pubblica amministrazione, la difesa e la sicurezza sociale. Suddividendo poi questo stesso indice fra i datori pubblici e privati la situazione già si rivela diversa con un gender pay gap al 3,7 per cento nel pubblico e al 19,6 nel privato.
Nonostante il primo quadro offertoci da queste stime sulla disparità economica tra uomini e donne, resta da dire che il gender pay gap non è uno strumento sufficiente per delineare questo divario, specialmente nel nostro paese. Dei risultati in apparenza migliori non implicano necessariamente un maggior benessere delle donne nel mercato del lavoro retribuito italiano: questo indicatore misurando la paga oraria, non tiene conto di altre forme di lavoro, oggi sempre più diffuse, con contratti di lavoro a breve termine, in sub-appalto o part-time, che influiscono molto maggiormente nell’allargare il gender gap fra i salari annuali. Se il lavoro part-time femminile oggi può essere visto come il frutto di una libera scelta della donna, magari per far fronte agli impegni familiari, i dati emersi recentemente dall’Istat rivelano che oltre il 60 per cento del part-time femminile è involontario. Inoltre questo gap in Italia viene calcolato esclusivamente sul numero di donne che lavorano e il nostro paese ha storicamente un’occupazione femminile molto bassa rispetto al tasso di occupazione maschile, per cui il divario di genere sul tasso di occupazione paradossalmente può restringere i dati sul divario salariale, se a restare fuori sono le donne meno qualificate che svolgono mansioni più basse (ossia ciò che storicamente avviene nel nostro paese).
Nonostante ciò le disparità salariali fra uomini e donne non sono solo il frutto del mercato lavorativo e dell’economia. Nei settori lavorativi con salari più bassi si riscontra spesso la scelta volontaria da parte delle donne di lavorare in condizioni che facilitino la conciliazione fra lavoro e famiglia, secondo i dati Ocse infatti le donne italiane fanno 100 minuti al giorni di lavoro non pagato in più rispetto agli uomini. Invece da uno studio dell’Inps emerge come la maternità in genere comporti una perdita di retribuzione fino al 12 per cento a vent’anni dalla nascita del figlio (al 20 per cento se la donna al momento del congedo ha un contratto determinato). Una politica di sensibilizzazione per una distribuzione più equa del lavoro di cura in famiglia e una rete pubblica più efficiente che semplifichi senza implementare eccessivamente il tempo a disposizione della cura familiare della donna possono essere strumenti efficaci per ridurre il differenziale salariale che si costituisce al di “fuori” dal contesto lavorativo specifico. Nei posti di lavoro, invece, è necessario operare su tutti i fattori che influenzano il gender pay gap, dalla segregazione occupazionale al sottoinquadramento a cui spesso si assiste delle donne rispetto alle loro qualifiche. Un buon esempio è quello degli inglesi, che contro il gender pay gap hanno adottato una “politica di trasparenza”, introducendo dal 2015 una legge che obbliga le imprese con più di 250 dipendenti a rendere noto il differenziale retributivo fra le donne e gli uomini da loro assunti.
Diana Avendaño Grassini
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