LAVAGNA (GE) − «La domanda che risuona dentro di noi e immagino dentro molti di voi è: perchè è successo, perchè a lui, perchè adesso, perchè in questo modo? Arrovellandoci sul perchè, ci siamo resi conto che non facevamo altro che alimentare uno stato d’animo legato alla sua morte senza possibilità di una via d’uscita. Allora – recita la lettera della giovane madre, straziata dal dolore causato dalla perdita del figlio – abbiamo capito che forse la domanda da porsi in questa situazione è piuttosto: come?»
Come? Verso le 13 del 15 febbraio – secondo quanto riporta Il Corriere della Sera – uno studente di 16 anni si è suicidato gettandosi dal terzo piano del condominio in cui viveva con i propri genitori: a scatenare ciò sarebbe stato un controllo della Guardia di Finanza che, in mattinata, avrebbe fermato il ragazzo, durante un controllo di routine, con circa 10 grammi di hashish (c.d. droga leggera, derivante dalle infiorescenze femminili della cannabis) in corpo davanti il liceo scientifico sportivo Giannelli di Chiavari; inoltre, egli avrebbe confessato di detenerne altro nella propria camera (anch’esso successivamente recuperato dai finanzieri). Renzo Nisi, il comandante del gruppo provinciale della Guardia di Finanza di Genova, avrebbe spiegato ai microfoni di corriere.it, alla luce dello sbigottimento causato dal gesto estremo compiuto dal giovane, la «distanza enorme» che vi sarebbe stata «tra il controllo iniziale, il fatto contestato» e «la possibile conseguenza che non avrebbe avuto alcun rilievo penale e quel dramma che è successo poi». Poi la rivelazione che nessuno (forse) si sarebbe mai aspettato: « (la madre ndr) Si è rivolta a noi perchè dopo innumerevoli tentativi di convincere il figlio – afferma Nisi ai microfoni di repubblica.it – di smettere di farsi di spinelli non sapeva più cosa fare. Noi abbiamo organizzato un servizio e siamo andati lì».
«Grazie per aver ascoltato l’urlo di disperazione di una madre che non poteva accettare di vedere suo figlio perdersi. E ha provato con ogni mezzo di combattere la guerra contro la dipendenza prima che fosse troppo tardi. Non c’è colpa ne giudizio nell’imponderabile, e dall’imponderabile non può che scaturire linfa nuova e ancora più energia nella lotta contro il male. Proseguite»: conclude così la madre il suo discorso tenuto in occasione del funerale del ragazzo (QUI il testo integrale); uno striscione al di fuori della chiesa, ove si è tenuto il rito funebre, cita Canzone per un’amica di Francesco Guccini recitando «Vorrei però ricordati com’eri, pensare che ancora vivi. Voglio pensare che ancora mi ascolti e come allora sorridi».
E questa è solo l’ultima delle tante conseguenze della demonizzazione della marijuana e dei suoi derivati: “demonizzazione”? Secondo la Relazione annuale antidroga del 2014, in Italia sono decedute a causa del consumo di sostanze stupefacenti 313 persone: di essi 147 a causa di uso (ed abuso) di eroina, 32 di cocaina, 10 di metadone e 1 di anfetamine; dei restanti 132 si sa solo che il decesso è avvenuto per overdose di sostanze stupefacenti sintetiche. Ma andiamo oltre il campo delle droghe: in Italia, in base ai dati raccolti tra il 2010 e il 2013 da ISTAT e ISS (Istituto Superiore della Sanità) e mostrati durante l’Alchohol Prevention Day, i decessi per consumo eccessivo di sostanze alcoliche è più che decuplicato, basti pensare che soltanto nel 2010 16.000 persone sono morte per cause riconducibili all’assunzione di alcool. E il consumo di tabacco? Il tabagismo è la prima causa di morte in Italia, in base a quanto affermato dal ministero della Salute nel recentissimo 2015, dato che le sigarette causano dai 70.000 agli 83.000 decessi annui. A fronte di tutto ciò, lo Stivale resta uno dei più grandi consumatori di cannabis e derivati, seppur essa al momento è illegale (progetti di legge in discussione a parte).
E i morti per uso di marjuana? In Italia, sempre nello stesso periodo di riferimento, non vi è alcun caso; e mentre i decessi per consumo di alcool, droghe pesanti o sintetiche che dir si voglia e tabacco crescono e diminuiscono in maniera altalenante, le morti per uso di marijuana e simili fortunatamente faticano a decollare, anzi. Nella Repubblica Italiana le droghe leggere sono illegali tanto quanto quelle pesanti, sul piano sostanziale esse hanno lo stesso valore eppure, come si vede, le conseguenze effettive sono drasticamente diverse (basti pensare che per trovare dei decessi collegati, direttamente o meno, all’uso di cannabis bisogna andare in Gran Bretagna in cui, storicamente, vi sono solo due morti, in base a quanto riporta finanzainchiaro.it). Secondo la relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia (2016) circa il 20% degli studenti italiani consuma cannabis, ma solo il 3% ne fa uso frequente. Per quanto riguarda la reperibilità del prodotto, a detta del 43% di essi è facile da trovare (parchi, strade, ecc.). Dalla suddetta relazione si evince come vi sia un derivato della cannabis sintetico: la spice, che è simile alla marijuana solo per quanto concerne gli effetti ma le sostanze con cui è prodotta, il livello di dipendenza che provoca (alto) e le conseguenze (devastanti) sul corpo sono diametralmente opposte a quelle della canapa. Il 79% dei ragazzi fuma soltanto quando si ritrova con un gruppo di amici, in base al suddetto documento: buona parte dei consumatori vede nel fumare un punto di evasione da un eventuale rapporto insoddisfacente o con i genitori o gli amici, ovvero nel contesto (per lo più scolastico) in cui è inserito.
Il collante che unisce il caso di Lavagna ai dati sopra riportati non è altro che la parola “consapevolezza”: consapevolezza di sapere ciò che si sta facendo e a cosa si sta realmente andando incontro, coscienza del fatto che, se è vero che non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, non si può neanche assimilare un prodotto (eccetto alcune eccezioni, come la spice) naturale ad uno ottenuto squisitamente in laboratorio sia per gli effetti che per la droga in quanto tale. Eppure la paura di incappare in qualcosa di illegale c’è sempre, è una fiamma che scalda il nostro senso civico e, di fronte all’eccessivo perbenismo e alla dilagante disinformazione, divampa e incendia la nostra mente. Scrive in merito Roberto Saviano in un suo articolo per La Repubblica «Vi starete chiedendo cosa sarebbe cambiato se la cannabis fosse stata legale. La madre non avrebbe potuto chiamare la Guardia di Finanza, non solo, non ne avrebbe forse nemmeno sentito la necessità». Ad un certo punto la dietrologia è costretta a fermarsi poiché contemplare ogni ipotesi riconducibile al suicidio del giovane ragazzo è praticamente impossibile, ma perchè la madre – invece di chiamare i finanzieri – non ha semplicemente parlato con il ragazzo?
E ancora, se in futuro dovesse uscir fuori che l’abbia effettivamente fatto? Cosa cambierebbe? Di sicuro non riavrebbe indietro un figlio ucciso da congetture ormai obsolete che, tuttavia, continuano a nuotare in quel mare che è la nostra società. Probabilmente il sedicenne, al momento antecedente al suicidio, si potrebbe esser visto solo contro la legge e senza il supporto genitoriale, reo di qualcosa che nessuno può sapere cosa rappresentasse per lui: potrebbe esser stato in quel momento che ha pensato alla fuga da tutto e da tutti. Legalizzare un prodotto non vuole assolutamente consentire il suo uso smodato, perchè ogni sostanza, se assunta in ingenti quantità, causa danni (più o meno gravi), persino l’acqua. Legalizzare rappresenta non solo la regolamentazione di una disciplina sensibile come il consumo di droghe leggere, ma anche il senso di coscienza dello Stato stesso che rende propria – tramite il monopolio statale – la circolazione della cannabis e dei suoi derivati, ne prescrive i modi di impiego (ad uso ricreativo, ad uso medico, ecc.), ne detta i limiti e produce, in un sistema atto alla tutela del consumatore, dove l’ipertrofia d’informazione vige sovrana, una consapevolezza solida che riconosce le conseguenze di ciò a cui sceglie di accedere. Legalizzare vuol dire togliere ragazzi dalla strada e soldi dalle casse della mafia: tanti sognano un’Italia in cui ai pusher si sostituiscano rivenditori autorizzati, ma chissà in quanti e quando lo vedranno. Come evidenzia Saviano, qualora l’hashish fosse stato legale, la madre non avrebbe potuto (anche volendo) chiamare alcuna autorità; al massimo avrebbe sgridato il figlio ovvero l’avrebbe privato del prodotto. Che poi, dietro al suicidio, vi siano altri scheletri ancora nascosti nell’armadio di una famiglia colpita da un irreparabile lutto, questo nessuno può saperlo.
Francesco Raguni
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