Il 15 marzo ricorre la giornata del fiocchetto lilla contro i disturbi del comportamento alimentare, comunemente raccolti con la sigla DCA. Un fiocco utile per diffondere maggiore consapevolezza su queste patologie, sempre più nelle orecchie e, soprattutto, sotto gli occhi di tutti, ma ancora poco attenzionate a livello mediatico e giuridico nel nostro Paese. Per l’occasione abbiamo intervistato Chiara, una giovane ragazza che negli ultimi anni ha lottato per superare i DCA. Una storia che vale la pena leggere e ascoltare, per trovare la forza anche nei momenti più bui della propria esistenza.
«Sottolineo il fatto che chi soffre di un disturbo alimentare non lo capisce mai subito – comincia così, senza mezzi termini, la confessione di Chiara – Io oggi lo chiamo “tunnel degli orrori”: si entra all’interno di questa galleria infinita. In cui tutto sembra un work in progress. In cui tu ti senti “normale”, ma dentro è una cosa che non è affatto “normale”». Ma riavvolgiamo il nastro di questo “brutto film” e ripartiamo dal principio: «Io mi vedevo diversa rispetto agli altri. Mai stata la ragazza che prima di entrare a scuola mangiava il cornetto con le amiche, non ho mai avuto la libertà di andare a mangiare fuori molto spesso o mangiare una pizza a inizio settimana. Perché si parla proprio di questo: imporsi delle limitazioni da sola».
Poi i primi segnali di DCA, i primi sintomi che si facevano avanti nel corpo di Chiara e non solo. «I vestiti stavano sempre più larghi, i capelli stavano cadendo e si stavano assottigliando tanto, la pelle era piena di macchie per la mancanza di vitamine. Per non parlare del vero e proprio cambiamento, quello umorale: sono una persona generalmente felice, che ha sempre voglia di uscire e andare a ballare. In quel momento invece mi ero trasformata. Avevo sempre più voglia di non fare nulla: volevo stare da sola, volevo solo studiare. Sfogavo le mie insicurezze con il cibo. Per trovare la pace in un mondo troppo angoscioso preferivo non mangiare. Essere tanto magra, in un certo senso, mi faceva sentire forte».
Sintomi che chi soffre di DCA non coglie in un primo momento. Anzi, la negazione è la prassi per chi soffre di disturbi alimentari: «All’inizio non mi rendevo conto della malattia, perché fin quando non accetti il problema e capisci che stai esagerando, che vai oltre i canoni della “normalità”, non ti senti malata, ma anzi forte rispetto a chi vive una vita normale». Sintomi più chiari, invece, per chi viveva Chiara giornalmente, “day by day”: «Non solo la mia famiglia, ma soprattutto le mie compagne di classe si sono accorte del mio cambiamento: tanto dal punto di vista fisico quanto dal punto di vista emotivo. Questa malattia porta all’autoisolamento, alla depressione. Preferivo non fare nulla perché avevo il desiderio di stare da sola. Quindi ho cominciato a parlare con mio padre, non tanto perché mi sentissi particolarmente magra, ma perché mi sentivo diversa».
I primi campanelli di allarme arrivano in quei momenti indimenticabili per un’adolescente che sta per entrare nel c.d. “mondo dei grandi”: i famigerati 18esimi. «Dopo ogni festa, tornata a casa, vomitavo. Collegavo tutto all’intolleranza al lattosio, quando in realtà un’intolleranza non porta nessuno a vomitare. Oltretutto non ho mai stimolato il vomito fisicamente, ma bastava che mi concentrassi mentalmente per rigurgitare». Poi, l’episodio che cambia qualcosa dentro Chiara nel suo percorso di consapevolezza: «Era il mese di maggio del 2017. Sono nella mia stanza e mi guardo allo specchio, ma vedo una “me” enorme. Così decido di distruggerlo in mille pezzi».
Il passo successivo è la ricerca di una cura, di una spiegazione. «Le ipotesi erano tante: celiachia, problemi intestinali e simili. Ma non era nulla di tutto ciò. Più mi veniva detto di avere una malattia, un problema, più io mi indisponevo e non mangiavo». Ma, durante una di queste visite, arriva la prima svolta. «Una dottoressa, visitandomi, ha notato che ero sottopeso e ha allarmato immediatamente i miei genitori. Il mio sottopeso all’inizio non era eccessivo, di circa 2-3 chili sotto quello ideale». Ma la riluttanza nel mangiare era sempre più frequente, così «sono arrivata anche a 6 chili sottopeso, scendendo anche più giù in determinati casi».
Una volta toccato il fondo, dunque, non si può che risalire. «Quello è il momento in cui ho accettato di iniziare il mio percorso di riabilitazione e di affidarmi a una psicologa che mi ha aiutato tantissimo. Ancora oggi vado a delle sedute perché tornare indietro è davvero un attimo. Lei e il nutrizionista mi hanno aiutato tantissimo. La cura psicologica, per questi disturbi, va di pari passo con quella fisica».
Una cura che, in certi casi di DCA come quello che stiamo riportando tra queste righe, necessita anche di un ricovero. «In Italia esiste un centro per i disturbi alimentari a Todi e mi sono recata lì proprio quando mi hanno diagnosticato la malattia. Chi viene ricoverato in questo centro soggiorna lì e viene seguito anche durante i pasti». Purtroppo, però, centri del genere sono ancora un lusso in Italia. «Non so se sia un problema legato alla nostra sanità o ancora per la sottovalutazione di questa malattia rispetto ad altre ben più risonanti. Il fine di questa conversazione è invitare alla riflessione su questo tema».
Riflessione che non può non passare dall’immagine che i DCA hanno sui malati stessi e sulle persona che orbitano intorno a loro. Il primo consiglio, da parte di chi ha vissuto dentro questo tunnel degli orrori, non può che essere per i cari, per le persone vicine a chi soffre: «Nonostante vogliano aiutare chi soffre di questi problemi, spesso e volentieri non sanno esattamente che punti toccare. Posso consigliare loro di non attenzionare il problema con frasi classiche del tipo “Come mai non mangi?”, “Dai mangia qualcosa”, “Ma non hai mangiato nulla”. Così come nella risalita, non far notare al soggetto che finalmente sta riprendendo con la corretta alimentazione».
E infine un consiglio non può che essere indirizzato a chi soffre di DCA in prima persona: «Consiglio di non darsi delle scadenze, ma di darsi del tempo una volta che si inizia la terapia. Bisogna liberarsi dai sentimenti, dalle angosce e dai traumi interni che portano ad avere questi disturbi. Che sia insicurezza o scontri familiari». Una riflessione finale non può mancare sul nuovo mondo che i più giovani vivono sin dalla tenera età: «Mi rendo conto che questa realtà mediatica a cui le giovani generazioni di oggi sono assoggettate influenza molto. Consiglio di vivere nel mondo reale, piuttosto che vivere nel mondo immaginario e amarsi per ciò che si è. Per ognuno esiste la propria felicità e per ognuno la vita riserva qualcosa di positivo».
Francesco Mascali
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Proprietario, editore e vice direttore di Voci di Città, nasce a Catania nel 1997. Da aprile 2019 è un giornalista pubblicista iscritto regolarmente all’albo professionale, esattamente due anni dopo consegue la laurea magistrale in Giurisprudenza, per poi iniziare la pratica forense presso l’ordine degli avvocati di Catania. Ama viaggiare, immergersi nelle serie tv e fotografare, ma sopra tutto e tutti c’è lo sport: che sia calcio, basket, MotoGP o Formula 1 non importa, il week-end è qualcosa di sacro e intoccabile. Tra uno spazio e l’altro trova anche il modo di scrivere e gestire un piccolo giornale che ha tanta voglia di crescere. La sua frase? «La vita è quella cosa che accade mentre sei impegnato a fare altri progetti»