Ieri la corte d’Appello di Messina ha condannato la procura di Caltagirone per non aver impedito l’omicidio di una donna uccisa dal marito nel 2007, nonostante le minacce dell’uomo fossero già state denunciate dalla donna dodici volte. Se denunciare le violenze del partner non è sufficiente a salvare la vita di una donna, quali sono le effettive tutele fornite dallo Stato?
Ormai nostro malgrado possiamo riconoscere la frequenza con la quale constatiamo nei casi di femminicidio come le donne avessero in passato provveduto in più occasioni a denunciare il compagno o a rivolgersi a centri antiviolenza. Inevitabilmente questi fatti di cronaca ci pongono degli interrogativi concreti sull’effettiva efficacia di questi mezzi di sostegno per la vittima. A oggi quali sono i punti deboli nella tutela delle donne vittime di violenza? Secondo i dati Istat attualmente una donna che subisce violenza 8 volte su 10 non chiede aiuto. Spesso sentiamo notizie su donne uccise che erano già state maltrattate e non avevano chiesto aiuto, quasi come a insinuare che se lo avessero fatto si sarebbero salvate nonostante ciò non possa essere stabilito. Le donne nella maggior parte dei casi temono di denunciare perché hanno paura di scatenare razioni di rabbia o violenza da parte del partner nei propri confronti o in quelli dei figli, cosa effettivamente plausibile. Ma nell’approcciarsi a questi temi è essenziale anzitutto saper sottrarsi ad ogni tipo di generalizzazione, in quanto ogni caso costituisce una realtà a sé stante.
La prima cosa da capire è che la denuncia di per sé costituisce uno strumento preliminare, che di fatto non è tutto ciò di cui una donna ha bisogno per essere protetta: concretamente vi è un itinere lunghissimo prima che si possa realmente ottenere un eventuale arresto dell’aggressore. Inoltre è necessario lavorare costantemente con la vittima accompagnandola nel suo percorso, per evitare possibili ripensamenti o riconciliazioni con il compagno violento. La violenza è un problema estremante complesso, che va affrontato come tale con un approccio integrato. Anzitutto è necessario saper instaurare un rapporto di fiducia con la vittima, sostenendola nelle sue scelte. L’appoggio ad organizzazioni nazionali (e non solo) di donne contro la violenza può essere a tale scopo proficuo, poiché la vittima entrando in relazione con donne dal passato simile può beneficiare delle loro esperienze, entrando in una fitta rete di solidarietà tale da evitarle un senso di solitudine e abbandono. Inoltre i centri antiviolenza per loro missione non offrono solo un sostegno relazionare e psicologico, ma forniscono anche una serie di aiuti concreti avendo a disposizione avvocati specializzati e alloggi in “case rifugio”. La violenza coinvolge aspetti sociali, economici, culturali, psicologici, legali. Per questo anche il sostegno ad una singola donna deve essere concordato in rete per poter essere efficace.
Quando una donna si rivolge a un centro antiviolenza è necessaria anzitutto la valutazione del rischio di recidiva e il possibile omicidio. Gli strumenti messi in campo, denominati “le tre P” sono: protezione della donna, punizione del responsabile e prevenzione della violenza. In Italia la punizione del responsabile è molto carente, ma ciò non si risolve con un implemento delle leggi, è necessario impegnarsi a far rispettare quelle che già esistono. «Basta guardare che condanne irrisorie hanno gli autori di femminicidio: intorno ai 20 anni, quasi mai si arriva all’ergastolo. Che poi con gli sconti di pena e senza precedenti alla fine dopo sei o sette anni è fuori. Lo Stato non ha ancora preso sul serio la necessità di proteggere le vittime di violenza, perché questi casi non sono equiparati alla protezione offerta ai testimoni di giustizia o alle vittime di mafia» sostiene la responsabile della Casa delle donne di Bologna. Nel nostro paese si contano mediamente 150 femminicidi all’anno ed un numero uguale di tentati femminicidi, per non contare un numero ben più ampio di donne che subiscono maltrattamenti gravi e ripetuti. Solo con un coordinamento fra assistenti sociali, forze dell’ordine, centro antiviolenza e assistenza legale, che si può mettere a punto un piano di protezione veramente efficace, partendo dai bisogni che ha la donna.
Per quanto riguarda gli strumenti offerti dalla legge, nei casi di violenza contro le donne si può procedere sia in sede civile, che in sede penale. Nel 2001 è stato introdotto l’ordine di protezione, un ordinamento che consente l’allontanamento da casa del partner ed eventualmente anche il divieto di avvicinamento. Ma questo strumento è applicato ancora a macchia di leopardo in Italia. In questi casi la tempistica è fondamentale poiché se la donna chiede aiuto e concorda il suo trasferimento in una casa rifugio è necessario contemporaneamente fare in modo che sia protetta. Finché non è emesso un ordine di protezione la donna non può andare a lavoro o accompagnare i figli a scuola, perché non sussiste ancora una limitazione della potestà genitoriale e il coniuge/padre violento potrebbe andare a prenderli per tenerli con sé. Un ulteriore strumento utile è l’aspettativa per violenza, una nuova misura che consente alle donne di assentarsi dal lavoro senza perdere l’impiego. Di leggi a tutela della donna ce ne sono moltissime, a mancare è una struttura armonica di tutela della donna vittima di violenza. Molto dipende anche dai tribunali e dalla sensibilità del magistrato, per cui la situazione può variare considerevolmente nelle varie zone d’Italia. Per assicurare la Protezione alle vittime è inoltre essenziale una piena applicazione della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne, che l’Italia ha ratificato, ma non ancora attuato del tutto.
Diana Avendaño Grassini
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