Gradasso, spaccone, chiamatelo come volete. Ma non dite che Daniel Osvaldo non abbia mantenuto la parola. «Mi ritiro per dedicarmi al rock,» aveva detto nell’estate 2016. Detto, fatto. Un anno dopo, il suo primo disco era già stato lanciato.
Ma se dell’Osvaldo bomber sappiamo tutto, insieme alle sue peripezie dentro e fuori dal rettangolo di gioco, del suo alter ego da palcoscenico non possiamo dire lo stesso. È necessario, pertanto, andare con ordine. Già nel 2013, l’allora bomber della Roma, aveva formato il gruppo Barrio Viejo Rock’n’roll. Un ossimoro. Da una parte, un omaggio al tango (Barrio Viejo è uno dei titoli più famosi del genere, ndr), il ballo sensuale per eccellenza, nato nella sua Argentina. Dall’altra, la leggerezza del rock’n’roll, da sempre passione di Dani Stone.
A novembre 2016, due mesi dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, l’italo-argentino si è riunito a Barcellona con il resto della ciurma per registrare il disco al Medusa Estudio. Sì, proprio nella città che – insieme a Roma – ha accompagnato le sue stagioni da calciatore più significative, quando vestiva la maglia dell’Espanyol, allora guidato da Mauricio Pochettino.
Barcellona, dicevamo. Il luogo per eccellenza dell’arte e dell’estro, dove è stato partorito un album dal titolo emblematico: Liberación. Liberazione. Da cosa? Semplice, l’aveva detto lo stesso Osvaldo dopo l’annuncio del suo ritiro dall’attività agonistica alla tv argentina: «Basta col calcio, vado a liberarmi di tutta questa merda.» Amen.
Dodici brani, di cui undici inediti, più Walking The Dog di Rufus Thomas (1965), uno dei mostri sacri di Memphis e tra i simboli della musica afroamericana. Testi che parlano di vita spericolata, di genialità e anarchia. Insomma, nella musica come nel calcio e nel privato, Osvaldo mantiene la stessa identità. E, su questa falsariga, si apre il primo album dei Barrio Viejo, con una brano intitolato Desorden. Disordine. Un po’ come la carriera pallonara di Dani che, in soli undici anni, ha vestito dodici casacche diverse, militando in cinque nazioni differenti. Il videoclip, dalla fotografia gradevole e girato al tramonto in un caldo pomeriggio sudamericano, è ambientato su una terrazza di un edificio porteño, l’eclettico stile architettonico tipico della pomposa Buenos Aires della prima metà del ‘900, figlia dell’immigrazione europea di inizio secolo.
Poi, l’album prosegue con Insatisfacción, una botta rock che calza a pennello nel racconto della carriera di un calciatore perennemente con le valigie in mano, sempre pronto a fare a sportellate con il mondo.
Buoni anche gli altri spunti musicali, con pezzi che, sovente, ricordano l’electric blues – One Bourbon One Scotch One Beer, per capirci. Peccato che l’ex delantero di Juventus e Inter non abbia la tonalità di John Lee Hooker, ma in alcune circostanza sembra quasi un Piero Pelù a corto di voce.
Uno stile personale, per carità, con un carisma vocale tutto suo. Da pub inglese, per capirci, dove gli spettatori ti ascoltano con la pinta di birra in mano, mentre ondeggiano a ritmo di musica sul pavimento in legno rigorosamente appiccicoso. Non una roba da fighetti, pensata per riempire un palasport o uno stadio. Ma degli stadi, del resto, Osvaldo, ne ha abbastanza. Adesso è il tempo del rock e della liberazione.
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Nell’albo dei pubblicisti dal 2013, ha scritto un eBook sui reporter di guerra e conseguito due lauree. A Catania si è innamorato del giornalismo sportivo; a Londra si è tolto la soddisfazione di collaborare per il Guardian e il Daily Mail. Esperto di digital marketing e amante dei social media, nel 2017 ha deciso di tornare a collaborare con VdC di cui era già stato volto e firma nel 2012-2013.