L‘ultimo terribile caso di suicidio all’università. Giada si è gettata nel vuoto nel finto giorno della sua laurea, ma non aveva dato nessun esame. Dall’inizio del 2018 ci sono stati due casi analoghi di laureandi suicidi, una piaga silenziosa, di cui si parla poco.
Su Internet è pieno di persone che postano le loro preoccupazioni, ritardi sulla laurea, menzogne agli amici per non dire la verità, addirittura esistono siti che organizzano finte feste di laurea e stampano diplomi falsi, con tutte le implicazioni legali del caso. Eppure quante volte abbiamo ascoltato di storie felici, quei “bei tempi andati dell’università”, ma troppo spesso la verità è ben diversa. Abuso di sostanze, depressione, disturbi alimentari, ansia e purtroppo anche il suicidio. Perché? Il Professor Guido Saraceni ha recentemente pubblicato un post sul suo account Facebook che parla di un vero e proprio dramma: «L’Università non è una gara. Cerchiamo di spiegarlo bene ai nostri ragazzi. Liberiamoli una volta per tutte dall’ossessione della prestazione perfetta, della competizione infinita, della vittoria ad ogni costo. Lasciamoli liberi di essere se stessi e di sbagliare. Questo è il più bel dono che possono ricevere. Il gesto d’amore che può letteralmente salvarne la vita».
A questo punto, alcune domande nascono spontanee. Qual è l’errore? È l’università a dover sviluppare un centro di ascolto? La burocrazia polverosa delle nostre università non avrà qualche colpa? Più atenei dovrebbero mettere a disposizione uno sportello a cui rivolgersi per eventuali problematiche di questo tipo, come già esiste a Padova. Qualcuno lo ha ribattezzato “il dramma di essere perfetti”, un dolore troppo ignorato sia dalle istituzioni, sia dalle famiglie che troppo spesso non danno spazio all’ascolto. Chi sta sbagliando? Cosa si può attivamente fare? Perché all’estero il cosiddetto “fuoricorso” è gestito diversamente? La nostra situazione è troppo spesso rappresentata da ore di laboratorio quasi inesistenti, tutoraggio che spesso non funziona, segreterie ammuffite ed esami “a crocette” che spesso non riescono a decretare la vera preparazione di uno studente. Certo è che le nostre università non hanno spesso neanche i fondi per aule adeguate, figurati per percorsi assistenziali psicologici. La colpa non è tutta dell’università, chiaramente impotente rispetto a certe realtà, anche la famiglia dovrebbe essere pronta ad un ascolto attivo e non giudicante, perché come dice il Prof. Saraceni: «L’università non è una gara».
Serena Borrelli
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