Ciò che è possibile concepire attraverso Internet è sconfinato e quasi non conosce limiti. È possibile, fra l’altro, servirsi di un’identità anonima per compiere eazioni scorrette, che nella vita reale verrebbero, nella stragrande maggioranza dei casi, punite severamente. Non a caso, vengono definiti Internet haters coloro i quali si camuffano da “opinionisti”, spesso severi, nei confronti di argomenti come i diritti LGBT, l’immigrazione, la violenza sulle donne e, addirittura, l’antisemitismo. In altre parole, dietro lo schermo qualcuno sa trovare il coraggio di affermare quello che in una conversazione effettiva, a volte, non si ha l’audacia di proferire, scrivendo di conseguenza qualunque opinione senza scrupoli né mezzi termini.
Al riguardo, tra l’agosto 2015 e il febbraio 2016 sono stati analizzati oltre 2,6 milioni di tweet dall’Osservatorio Vox, in collaborazione con le Università di Bari, di Milano e de La Sapienza di Roma; da ciò si è dedotto che gli utenti in questione si celano dietro nickname inventati e che si tratta indistintamente di uomini e donne, i quali hanno in comune solo l’appartenenza ad eventuali gruppi politici affini fra loro. Tale legame si spiega considerando che i social in questi anni si sono trasformati in una sorta di piattaforma per la propaganda politica, come esaminato da uno studio denominato Discorsi d’odio e social media (condotto da Arci e Cittalia nell’ambito del progetto mondiale Prism contro il linguaggio dell’odio in rete).
Gay, migranti, diversamente abili, ebrei e donne sono, pertanto, nel mirino di misogini, misantropi, xenofobi, antisemiti e quant’altro. In particolare, sono stati evidenziati dei termini ricorrenti nei vari post: parole come «troia, zoccola, demente, ritardato, frocio» e altre 71 voci del medesimo registro occorrono, infatti, in numerose circostanze. Dal lavoro di ricerca effettuato sono state anche create delle mappe dell’intolleranza, le quali espongono geograficamente il linguaggio d’odio utilizzato lungo tutta la penisola italiana. Al primo posto fra i bersagli si situano le donne, detenenti il 63% dei tweet negativi controllati; seguono gli omosessuali con il 10,8%, poi i migranti con il 10%, i portatori di handicap con il 6,4% e infine gli ebrei con il 2,2%.
A scatenare le ostilità verbali può essere qualsiasi episodio: avvenimenti di rilievo nazionale, battaglie religiose o femminicidi, che più di una volta si trasformano in occasioni di bullismo. Attenuare questo fenomeno sembra difficile, poiché, come anche consigliato dalla docente di Diritto costituzionale all’Università di Milano e cofondatrice di Vox, Marilisa D’anuco, il cambiamento può nascere solo da una trasformazione e maturazione culturale collettiva. Dunque bisognerebbe, innanzitutto, insegnare ai propri figli il giusto uso del World Wide Web, non solo in casa ma anche a scuola, mediante un’apposita disciplina insegnata in classe; dopodiché, si dovrebbe fare molta più attenzione ad abitudini, amicizie e valori moral dei propri figli, specie in considerazione del fatto che, come dice il detto, quasi sempre «prevenire è meglio che curare».
Anastasia Gambera
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