Madame Bovary, tutti diranno di averlo letto almeno una volta, o perlomeno di averlo iniziato e citeranno la celebre frase «Madame Bovary, c’est moi!» («Madame Bovary sono io!») di Flaubert, ma pochi, in realtà, l’hanno finito. È innegabile che certe parti risultino lontane e ridondanti. Ma allora perché se ne parla ancora?
Piccola digressione: cosa rende un libro un classico? L’eterna attualità dei suoi temi, purificati dalla vicenda contingente dell’epoca in cui è stato scritto. Allora perché il suddetto libro del 1856, ancora oggi colpisce nel profondo? Perché Emma Bovary parla a dei meccanismi psicologici che certe volte si tende a nascondere. All’inizio del romanzo la protagonista vive in campagna, sogna di abbandonarla e si invaghisce della prima persona che può offrirle questa possibilità, Charles Bovary. Già qui entra in gioco il tema della voglia di andarsene, soprattutto dall’Italia, un Paese nel quale si è verificato un incremento dell’emigrazione verso l’estero (le mete preferite sono Regno Unito e Gemania) toccando quota 250 mila unità quest’anno (un interessante prospettiva sul Sole24ore). Ogni giorno, appunto, si sente dei giovani e dei laureati che per avere un lavoro o per concedersi di perseguire un sogno – che sia scientifico o artistico – se ne vanno.
Un fenomeno analogo, senza il sottofondo tragico spesso cavalcato da giornali e politica, è la wanderlust ovvero il desiderio continuo di viaggiare, che fa vedere ogni posto lontano un po’ più grande e la propria città/casa troppo piccola. Infatti, appena Emma arriva a Tostes già ne è stufa, ma anche la più grande Yonville, dove Charles la porta per curare la sua “depressione”, non basta. Ed è triste ammetterlo, ma Madame Bovary è perfettamente comprensibile e si genera una sorta di astio verso Charles, il quale cerca solo di accontentarsi.
Il romanzo è un prototipo della cultura usa-e-getta che caratterizza questi tempi: si attende qualcosa, la si sospira e quando arriva è già obsoleta. Esempio cliché sono gli apparecchi tecnologici, le cui nuove versioni si rincorrono impazzite. Il problema, però, non è limitato agli oggetti: Emma si stanca anche delle persone. Appena sposato Charles, si accorge di tutti quei difetti che, quando non era ancora suo, non esistevano, infatti, odia il suo provincialismo, il suo essere sempliciotto, la sua età. Allora scappa con Léon, l’amante giovane, che sembra anche amante come lei della vita, del piacere, del momento effimero. Léon condivide con Emma un carattere incostante e si stanca di lei, così la “poverina” si rifugia tra le braccia di un conte più vecchio.
Non si faccia l’errore di pensare che Emma si comporti così perché è una donna. La potenza della sua figura è che può essere applicata a tutti. È, infatti, un comportamento comune a molti uomini che cercano compagne più giovani o adulte a seconda dell’età, Ford diceva: «la donna come la macchina va cambiata ogni 3 anni». Ci si stanca delle persone, si teme la sistemazione, che fa vedere lo scorrere del tempo sia nei lineamenti che nei pensieri – Emma non vuole cedere al tempo, non vuole accontentarsi.
C’è una soluzione? Forse sì, ed è fare ciò che spaventa (o che il mondo ha insegnato a temere): fermarsi. Vivere giorno per giorno, momento per momento, assaporare il presente e lasciare che il futuro si costruisca un passo dopo l’altro. Sapere di avere un obiettivo, sorriderne al pensiero, ma godersi i piccoli passi che porteranno alla sua realizzazione. Sorridere tra sé e sé come dei pazzi perché si sa di avere creato qualcosa di speciale e apprezzare anche quel sentimento di impotenza momentaneo perché non si sa come presentarlo.
In conclusione, una battuta esplicativa del carattere insoddisfatto e insofferente di Emma, ma anche della sua tragica ironia, avviene tra lei e la sua domestica. Quest’ultima le racconta di una signora che si sdraiava ogni giorno sulla battigia aspettando di annegare, ma poi era “guarita” dalla sua depressione con il matrimonio. E la risposta è dissacrante:«Ma a me, questo sentimento è venuto dopo».
Anna Colombo
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