Con la conclusione del Congresso generale del Partito Comunista è certo che si possa affermare che con Xi Jinping la Cina sia entrata nella terza era della sua storia politica.
La conferma del mandato conferito al Presidente Xi Jinping e l’entusiasmo con cui è stato accolto il piano quinquennale di riforme che questi ha annunciato, durante il discorso davanti all’assemblea dei maggiori dignitari e delegati del Paese, ha segnato un momento fondamentale della convention socialista e uno dei punti salienti della carriera dell’attuale Segretario del Partito Comunista Cinese.
Dal lungo e coraggioso discorso – durato quasi tre ore e mezza – è emerso quello che Xi chiama «il Sogno Cinese», l’obiettivo di modernizzare la Cina rendendola un Paese che si possa affacciare al mondo intero con «spirito pionieristico, osando di sognare e lavorare assiduamente per realizzare la rinascita della Nazione»: una visione fiduciosa che, insomma, porterà l’avvenire di una nuova era per il socialismo cinese e che sarà caratterizzata da una sempre maggiore crescente influenza internazionale di Pechino nello scacchiere mondiale.
Questa nuova fase di apertura è stata accolta con entusiasmo e fermento, oltre che dalla classe politica, anche – e soprattutto – dagli imprenditori: Zhang Jindong di Suning e Liu Chuanzhi di Lenovo, due dei più grossi magnati dell’industria cinese, si sono entrambi spesi in elogi per la decisione presa dal Partito e per il discorso di Xi Jinping.
Certo, non è esattamente una notizia dell’ultima ora che la Cina abbia affrontato dei cambiamenti in un’ottica più liberista; è sin dalle riforme degli anni Settanta che, infatti, Pechino ha concesso campo libero nei settori più disparati alle imprese private. Ciononostante è importante sottolineare l’enorme rilievo che avranno le multinazionali cinesi nel grande schema che Xi ha intenzione di adottare per l’ammodernamento del Paese.
Secondo Robert Lawrence Kuhn, autore di Come pensano i leader cinesi, il ruolo centrale che il mondo del business e le compagnie – sia nazionali che straniere – giocheranno per attuare la visione di Xi Jinping rappresenta il primo passo per l’affermazione sempre più concreta del Sogno Cinese; questa sarebbe, quindi, una sorta di affermazione di protagonismo sullo scacchiere mondiale che preceda la definitiva armonizzazione della società cinese, in una pseudo-reinterpretazione in chiave moderna della dottrina confuciana.
Implicazioni politco-filosofiche a parte, la decisione di approfondire ed intensificare «alla luce di rafforzare i valori socialisti nella nuova generazione di imprenditori» il ruolo delle multinazionali, rappresenta un importante e significativo cambiamento per uno Stato che da sempre ha avuto una relazione a dir poco conflittuale con il mondo del business e la classe degli imprenditori. Oggi, invece, il Partito Comunista Cinese sembra interessato ad entrare nelle aziende, soprattutto nelle multinazionali e soprattutto in quelle attive nei settori della tecnologia. Secondo quanto riporta il Japan Times, il Governo si sarebbe già mosso in questa direzione chiedendo alle compagnie di inserire nei propri statuti la Costituzione del Partito Comunista Cinese e, soprattutto, chiedendo di invitare delle cellule del Partito all’interno dei consigli amministrativi e degli uffici direttivi: garantendosi, così, un peso specifico non indifferente riguardo alle maggiori decisioni strategiche delle più grandi multinazionali cinesi.
Se il piano di apertura internazionale che Xi Jinping ha illustrato al Congresso generale di Pechino ha compiaciuto l’èlite imprenditoriale più liberista, è anche vero che il Presidente cinese è stato capace di ottenere l’approvazione anche degli intransigenti conservatori maoisti, solidificando così la propria autorità come uno dei più potenti e influenti leader della storia del Partito Comunista.
Sebbene vi sia chi, tra i suoi più strenui sostenitori, l’abbia già chiamato Timoniere – un appellativo che non è stato concesso ad alcun Segretario del Partito a parte Mao Tse-Tung stesso – le differenze tra l’attuale Presidente cinese e il fondatore della Repubblica Popolare sono notevoli: la prima delle quali è il fatto che il potere di Xi derivi dell’apparato burocratico del Partito e, mentre Mao – secondo la storiografia ufficiale del regime – avrebbe «liberato la Cina dall’oppressione occidentale» costruendo la propria autorità dopo un lungo e complesso conflitto, il primo si sarebbe dedicato a dare al popolo cinese una «nuova voce su scala globale».
Nonostante le differenze e nonostante Xi non si sia mai profusamente speso in elogi per il Grande Timoniere né contraddistinto per essere parte dello zoccolo duro della corrente maoista del Partito, questi ha comunque attivamente combattuto contro i revisionisti e contro chi abbia messo in discussione l’autorità centrale del regime: come ha dimostrato attraverso l’inflessibile risposta contro i protestanti della Rivoluzione degli ombrelli di Hong Kong del 2014, non offrendo alcun’apertura verso posizioni più democratiche nei confronti della difficile situazione della ex-colonia inglese.
«Partito, Governo, militari, civili e accademici. Est, Nord, Sud, Ovest e Centro. Il Partito guida tutti» è così che Xi Jinping conclude il Congresso generale, chiaramente attingendo a piene mani dalla retorica maoista, fornendo un’immagine ben definita di ciò che sarà il suo secondo mandato alla guida della Paese: una nuova fase di crescita globale che porterà la Cina ad essere uno dei principali interpreti delle dinamiche politiche internazionali , non distaccandosi dagli ideali socialisti della Rivoluzione maoista ma integrandoli con la moderna vocazione globalista per affrontare in una nuova ottica la sfide poste dall’Occidente.
Francesco Maccarrone
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