La drammatica strage avvenuta a Nizza nel giorno della festa nazionale francese ancora una volta ha fatto piombare l’Europa nell’incubo del terrorismo di matrice jihadista. L’umanità ha assistito in modo inerme e silenzioso alle angoscianti immagini di sangue e di dolore provenienti dalla Costa Azzurra, teatro dell’ennesimo attentato alla libertà, agli usi e ai costumi tipicamente occidentali compiuto dal Daesh, il quale si è servito delle cosiddette cellule “dormienti” per paralizzare nuovamente il Vecchio Continente. Quanto è accaduto fa tornare inevitabilmente d’attualità il tema della sicurezza in rapporto a luoghi particolarmente affollati ed esposti a potenziali attacchi terroristici.
Tenere sotto controllo le stazioni aeroportuali in maniera quanto più scrupolosa è il miglior biglietto da visita che uno Stato possa offrire agli occhi del mondo intero. Lo sanno bene in Israele dove, nel corso degli anni, è stato messo a punto un efficiente sistema di sicurezza, già tenuto d’occhio dall’Europa all’indomani della strage di Zaventem del 22 marzo scorso. Tuttavia, il modello israeliano deve essere inquadrato necessariamente in relazione alla particolare posizione dello Stato di Israele dal punto di vista geopolitico, da sempre stretto nella morsa dei Paesi arabi confinanti.
L’efficacia di questo sistema risiede principalmente nell’abilità di un personale di sicurezza altamente qualificato più che nell’utilizzo accentuato dei body scanner o di qualche altro macchinario all’avanguardia. Poco importa se i passeggeri sono costretti ad attendere tre ore prima di imbarcarsi, passando attraverso ben cinque livelli di sicurezza, se ciò significa assicurare l’incolumità fisica di fronte alla minaccia globale del terrorismo. In attesa di passare dalle parole ai fatti, in questo momento le forze di sicurezza stanno riflettendo soprattutto sull’effettiva applicabilità del sistema adottato a Ben Gurion rispetto al contesto sociale in cui viviamo.
Gabriele Mirabella
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