Dal 2013 ad oggi ancora un nulla di fatto per il reato di tortura nel nostro Paese: il testo votato lo scorso giovedì 18 maggio a Palazzo Madama è stato ritenuto «impresentabile» perfino dall’organizzazione Amnesty International.
«Il termine “tortura” indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei […]» è quanto affermato dall’Articolo 1 della Convenzione di New York contro la tortura approvata dall’Assemblea dell’ONU nel 1984. Entrata in vigore in nel 1987, nel giugno del 2008 è stata ratificata da 145 Paesi. L’Italia ha sottoscritto la Convenzione, ma non disponendo ancora di una legge che introducesse il reato di tortura, essa non poteva essere operante. Sorte analoga è toccata alla Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura del 1987, sottoscritta nel 2012, ma mai ratificata. Solo il 19 giugno 2013 perché venne presentato il disegno di legge Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano, il cui primo firmatario è Luigi Manconi, senatore del Partito Democratico. Il Ddl passò al vaglio della Commissione giustizia nel luglio dello stesso anno e il 5 marzo 2014 approdò al Senato dove durante la prima lettura ottenne 231 voti favorevoli e 3 astenuti. Se, però sui giornali si parla di «Passo avanti verso la civiltà», è lo stesso Manconi a definire, dopo le modifiche apportate dalla Commissione Giustizia, il testo «mediocre».
La tortura diventò, per la prima volta, un reato perseguibile. Tuttavia, così come modificato dalla Commissione Giustizia, essa era e rimane un reato comune e il fatto che sia commesso da un pubblico ufficiale costituisce solo un’aggravante. Il testo iniziale puniva con la reclusione da 3 a 10 anni chiunque infliggeva sofferenze psichiche o fisiche mediante atti di violenza o minaccia di comportamenti disumani e degradanti la dignità umana, ad una persona che non era in grado di ricevere aiuto. Se il reato era compiuto, come detto, da pubblico ufficiale o da persona incaricata di pubblico servizio, la pena andava dai 4 ai 12 anni di reclusione. Infine, in caso di morte del torturato era prevista la reclusione di 30 anni se trattasi di conseguenza non voluta dal reo, oppure l’ergastolo se cagionata. Il Ddl chiariva anche che le dichiarazioni ottenute mediante tortura potevano essere utilizzate solo contro le persone accusate di tale delitto al fine di provarne la responsabilità. Stabiliva, inoltre, l’impossibilità di respingere o estradare una persona verso uno Stato nel quale si riteneva potesse rischiare la tortura, oltre che escludere l’applicabilità dell’immunità diplomatica per i cittadini straniere condannati o processati in un altro Paese o da un tribunale internazionale per tortura. Nella stessa maggioranza non mancarono le polemiche, soprattutto da parte di chi chiedeva maggiore chiarezza e responsabilità per coloro che detengono l’arbitrio del potere, alla luce dei fatti di Genova del 2001 o di quanto accaduto a Stefano Cucchi e Federico Aldovrandi.
Sono stati proprio i fantasmi del G8 di Genova a riaprire il dibattito: il 23 marzo 2015 si tenne la discussione generale alla Camera e il 9 aprile il voto, due giorni dopo che sul Paese era caduta la scure di Strasburgo. Il 7 aprile 2015, infatti, la Corte europea dei diritti umani ha sancito che quanto compiuto dalle forze dell’ordine italiane durante l’irruzione alla scuola Diaz, il 21 luglio 2001, dovesse essere qualificato come tortura. Rispetto al testo precedente, furono modificati i termini delle aggravanti e fu introdotto il reato di istigazione a commettere tortura. Se un pubblico ufficiale avesse compiuto tale reato, la reclusione sarebbe andata da un minimo di 5 a un massimo 12 anni, ma solo se la sofferenza inflitta fosse stata ulteriore rispetto all’ «esecuzione delle legittime misure privative o limitative dei diritti»; inoltre, se dal fatto fosse derivata una lesione personale le pene sarebbero aumentate di un terzo in caso di lesione grave, della metà in caso di lesione gravissima. Se, invece, un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio avesse istigato un collega a compiere tortura, la pena sarebbe stata la reclusione da 6 mesi a 3 anni, indipendentemente dall’effettiva perpetrazione del reato. Infine, furono raddoppiati i termini di prescrizione per il delitto. Il Ddl fu approvato con 244 sì, 14 no e 50 astenuti, ma proprio Luigi Manconi si dichiarò deluso: «Il testo approvato alla Camera ha cancellato il riferimento allo stato di privazione della libertà e alla condizione di minorata difesa che nel testo del Senato erano il necessario corollario della scelta di qualificare la tortura come un reato comune. A differenza di quanto previsto dal mio disegno di legge, puntualmente ricalcato sulla definizione di tortura elaborata dalle Nazioni Unite» aveva spiegato nelle pagine di Internazionale, aggiungendo «Reato proprio è quello imputabile ai pubblici ufficiali e a chi eserciti pubbliche funzioni, e deriva da un abuso di potere commesso da chi, eccedendo i limiti dell’autorità legalmente detenuta, compia atti illegali e infligga pene e maltrattamenti inumani e degradanti ai danni della persona sotto custodia». Contrario, sebbene con motivazioni differenti, si dimostrò anche il leader della Lega Nord Matteo Salvini, che durante una manifestazione davanti a Palazzo Chigi insieme al Sap (Sindacato autonomo di polizia), si è radicalmente schierato contro il reato di tortura «Carabinieri e polizia devono poter fare il loro lavoro. Se devo prendere per il collo un delinquente, lo prendo. Se cade e si sbuccia un ginocchio, sono affari suoi».
Non ha avuto una pubblicità migliore il testo votato lo scorso giovedì 18 maggio a Palazzo Madama, ritenuto «impresentabile» dall’organizzazione Amnesty International. Il testo uscito dal Senato con 195 sì, 8 no e 34 astenuti (fra cui il suo stesso firmatario, Sinistra Italiana, 19 senatori del PD, 7 di Ap e 5 del Movimento 5 Stelle), si appresta a tornare all’esame della Camera molto cambiato rispetto a quello che si era votato a Montecitorio due anni fa. In primis la tortura resta un reato comune, con l’introduzione della punibilità «se il fatto è commesso mediate più condotte, ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». La pena prevista rimane la stessa, da 4 a 10 anni di reclusione, ma è cambiata l’aggravante per i pubblici ufficiali. Non vi sarà, infatti, reato nel caso in cui le sofferenze inflitte da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio siano «risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti». Sono state apportate modifiche anche al reato di istigazione alla tortura da parte del pubblico ufficiale: nel Ddl votato, infatti, per essere tale l’istigazione dovrà avvenire «in modo concretamente idoneo». Infine, se il testo uscito dalla Camera prevedeva il divieto di estradizione dell’individuo se esso correva il rischio di essere oggetto di persecuzione o tortura per motivi raziali, di sesso, lingua, cittadinanza, religione, opinioni politiche, quello votato al Senato prevede un semplice divieto di respingimento o espulsione in uno Stato che pratichi la tortura.
Il provvedimento ora torna in quarta e ultima lettura alla Camera, ma se fra i banchi del Partito Democratico è stato accolto con entusiasmo, le opposizioni non si sono risparmiate critiche. Corradino Mineo, parlamentare di SI ha parlato di «accordo al ribasso», fra i cui difetti vi sarebbe anche l’impossibilità di dimostrare in tribunale che è stato commesso il reato di tortura. La delusione, però, non è interna solo agli addetti ai lavori. «Una legge talmente inapplicabile da essere controproducente» ha affermato Ilaria Cucchi, sorella del trentenne che il 22 ottobre 2009 morì durante la custodia cautelare al carcere di Regina Coeli, «Qua si sta innescando una situazione grottesca per tutelare chi ha paura di incappare in questo reato, altrimenti non me lo spiego. Si creano altri problemi e altra confusione e si favorisce chi commette questo reato, salvandolo dalla condanna» conclude.
Ad intervenire in proposito è stato anche Roberto Settembre, giudice di Corte d’Appello nel processo per i fatti avvenuti nella caserma di Bolzaneto a Genova nel contesto del G8, in un’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano: «La nuova legge sulla tortura è un’ipocrisia, non deve essere approvata così com’è passata al Senato. Le torture della caserma di Bolzaneto del G8 di Genova con queste norme non sarebbero punite. Ricordo un uomo al quale divaricarono le dita di una mano, gliele strapparono fino all’osso. Niente, non sarebbe punito come tortura. È una legge inutile. Falsa». «La priorità è stata quella di voler proteggere gli appartenenti all’apparato statale anche quando commettono gravi violazioni dei diritti» questo, infine, il tweet di Amnesty International, condiviso anche dall’associazione Antigone. La speranza comune, dunque, è che il Ddl venga nuovamente modificato alla Camera.
Francesca Santi
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