Lo spettro dell’indipendentismo scozzese torna a bussare alle porte di Westminster, dove l’esecutivo guidato da Theresa May attualmente è alle prese con la complicata risoluzione dei rapporti con l’Unione Europea alla luce dell’esito del voto referendario del 23 giugno scorso, che ha sancito la storica uscita di scena della Gran Bretagna dall’UE.
Adesso, infatti, il governo di Edimburgo si è detto pronto a far scattare l’ultimatum per Londra nel caso in cui i negoziati con Bruxelles dovessero comportare la perdita di accesso al mercato unico europeo, con conseguenze a cascata per l’intero sistema economico della Scozia. L’agenda di governo, dunque, prevede un nuovo referendum sulla permanenza scozzese nel Regno Unito, nonostante poco più di due anni fa la maggioranza dell’elettorato si sia espressa negativamente al riguardo. Il precedente sembra però non scoraggiare più di tanto la prima ministra Sturgeon, guida di un esecutivo a direzione socialdemocratica e la quale sta alzando il tiro su Theresa May. Allo stesso tempo, è innegabile come quest’ultima abbia in mano tutte le carte del gioco e sia comunque impegnata ad ascoltare le diverse campane prima di sedersi ufficialmente al tavolo delle trattative con l’UE in primavera.
Fino a pochi giorni fa, ad ogni modo, la Sturgeon ha ribadito con fermezza che «la migliore opzione per la Scozia resta la piena appartenenza all’UE come Stato membro indipendente». A suo favore pende il voto degli elettori scozzesi favorevoli al remain rispetto al giudizio espresso nel resto del Paese in occasione di Brexit. Tuttavia, è opportuno chiedersi se l’indipendenza sia la strada giusta da percorrere per far sì che la Scozia rimanga all’interno del mercato unico del Vecchio Continente in maniera vantaggiosa.
Gabriele Mirabella
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