Continua sul Mediterraneo, in maniera serrata, la lotta contro gli scafisti: in questi giorni se ne starebbero decidendo le modalità di esecuzione oltre che i compiti dei rispettivi stati interessati, quali Italia e Libia. A Tripoli toccherà gestire le operazioni di controllo dei flussi migratori, intercettare le barche degli scafisti e riportare a terra i migranti. A Roma, invece, spetterà segnalare alle motovedette della marina libica eventuali imbarcazioni clandestine, oltre che fornire il sostegno tecnico logistico richiesto. L’accordo in questione dovrà essere limpido e preciso, onde evitare disguidi diplomatici di qualsiasi tipo; il punto critico, tuttavia, resta sempre lo stesso: stabilire quale sarà la destinazione dei migranti strappati dal giogo degli scafisti.
Al momento si parlerebbe di centri di raccolta, dislocati sulla costa libica, controllati dall’Alto Commissario dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) per i Rifugiati e dell’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni. La presenza di queste due figure segna un importante svolta diplomatica per la Libia dato che i predecessori di Al Serraj non hanno mai firmato le convenzioni di Ginevra sul diritto d’asilo e sul trattamento dei rifugiati. Nelle suddette strutture, comunque, potrebbero essere avviate le procedure per richiedere asilo.
Tutto ciò sarà possibile grazie a un finanziamento di 100.000.000 di euro da parte di Italia, Germania, Francia e – ovviamente – della stessa Unione Europea. Ma in caso di un eventuale ingaggio come si dovrà procedere? La marina militare italiana potrà rispondere col fuoco solo ed esclusivamente in presenza di un attacco da parte degli scafisti stessi: l’impiego delle armi, quindi, avrebbe un fine squisitamente difensivo. Per un costo di 9.000.000 di euro al mese, verranno impiegati circa 700 uomini, due sottomarini e diversi mezzi aerei. In mare saranno operative dalle due alle sei unità, tra cui una nave anfibia (che dovrebbe essere la San Marco), una fregata, un pattugliatore ed una corvetta. Del resto gli scafisti sono spesso legati ad organizzazione criminali, per lo più di stampo terroristico: l’opzione che essi possano reagire non è da escludere.
L’accordo tra Italia e Libia apparirebbe ottimo sulla carta, ma sul pratico potrebbe avere diversi problemi di natura politica. La Libia, infatti, è uno stato politicamente frammentato: seppur Yazed al Serraj abbia dato il suo benestare al Primo Ministro italiano, Paolo Gentiloni, per collaborare con l’Italia, non è detto che Khalifa Haftar, generale e politico libero di spessore, sia d’accordo. Proprio Haftar, che gode di grande potere all’interno dell’apparato statale libico, essendo peraltro a capo dell’Esercito Nazionale, non riconosce massima legittimità all’attuale Primo Ministro. La stretta di mano con al Serraj, sotto la benedizione di Emmanuel Macron, Presidente della Francia, potrebbe paradossalmente restare un atto di mera cordialità diplomatica, fine a se stesso, destinato a essere smascherato quando il gioco delle parti chiamerà gli interessati ad agire in maniera concreta. A minare inoltre l’autorità di al Serraj vi sono anche le varie tribù e le milizie locali che non si identificano in nessuna delle due figure di potere (senza considerare l’eventuale presenza di jihadisti a sud della Nazione).
Francesco Raguni
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