REYKJAVÌK – Proprio nella settimana in cui a fare notizia è stato il boom di nascite a 9 mesi esatti dalla storica vittoria ad Euro 2016 contro l’Inghilterra, sempre dall’Islanda arriva una buona nuova che fa sorridere (e pensare) milioni di persone in tutto il mondo. Obbligo di pari retribuzione tra uomini e donne a parità di qualifica. È questo il contenuto della legge approvata poche settimane fa dal parlamento islandese (l’Althingi, per chi volesse saperne di più sul nome in lingua madre), adesso resa operativa grazie alla pubblicazione sulla gazzetta ufficiale.
L’Islanda, che da decenni si distingue per un’avanguardia fuori dal comune sulla parità di diritti e opportunità tra sessi (la c.d. gender equality n.d.r.), è il primo Stato al mondo che obbliga – con una legge e delle misure coercitive – tutti i datori di lavoro a pagare allo stesso modo donne e uomini. Nello specifico, sarà affidato alla polizia (Lögreglan, in islandese), alla tributaria e allo Squadrone vichingo – quest’ultimo raramente, dato che sarebbe il reparto scelto delle forze dell’ordine – il compito di controllare la documentazione che, a sorpresa, sarà richiesta al singolo datore, pubblico o privato che sia, per provare che rispetta la parità retributiva richiesta dalla legge di cui abbiamo parlato.
Il problema delle retribuzioni impari tra i due sessi venne alla luce qualche anno fa grazie all’attivista Frida Ros Valdimarsdottir, a capo anche dell’ultima (particolare) protesta in cui molte donne hanno concluso la propria giornata lavorativa due ore e mezza prima del previsto: tempo che, minuto più minuto meno, equivarrebbe alla differenza salariale rispetto ai colleghi di sesso maschile. Una dimostrazione esemplare che fa ben capire come già oggi l’Islanda sia ai primi posti nelle speciali classifiche della gender equality. Dati alla mano, infatti, i ministri di sesso femminile compongono la metà del governo, il primo capo di Stato donna è salito al potere proprio nel paese scandinavo e infine solo il 20% del gentil sesso è ancora casalinga, con il restante 80% a godere di un posto di lavoro.
Non c’è da stupirsi, quindi, che sia proprio l’Islanda a guidare una rivoluzione legislativa di tale portata, anche se sempre all’interno dello stato insulare vi sono state alcune voci contrastanti. «Le aziende dovrebbero fare di più per le donne nel loro interesse» tuona così la Confindustria islandese tramite le parole del proprio direttore generale, «ma non obbligate per legge». Parole a cui il ministro degli Affari sociali e dell’uguaglianza Thorsteing Viglundsson non ha atteso a replicare: «Combatteremo come vogliamo, eletti dal popolo, ogni interesse radicato e celato di gruppi di potere, per quanto tempo e costi ciò ci imponga». Lo stesso ha poi affermato al New York Times: «Siamo decisi ad abbattere le ultime barriere retributive legate al gender in ogni posto di lavoro. La storia ha mostrato che a volte se vuoi il progresso sei costretto a imporlo dall’altro contro chi vi si oppone» eppure, in un clima di forte crescita culturale, economica e ideologica, siamo sicuri che questa riforma troverà terreno fertile in Islanda per poi trovare un’espansione a macchia d’olia in tutto il vecchio continente. Ma forse per questo è ancora troppo presto.
Francesco Mascali
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